A Linda Thompson, londinese di Hackney, non ha mai
fatto difetto l’ironia. Persino quando seguì l’allora consorte Richard
Thompson in due diverse comuni islamiche, verso la metà degli anni ’70,
fu abbastanza spiritosa da ammettere come l’esperienza avesse soprattutto
riguardato «un manipolo di bianchi, borghesi e benestanti animati da
un viscerale desiderio di autopunirsi». Parliamo di fatti accaduti
ormai mezzo secolo fa, e facendo qualche conto, sono trascorsi 42 anni
dall’ultimo disco - Shoot Out The Lights (1983), una delle opere
più brucianti di sempre sui temi del disagio, della separazione, del deragliamento
psichico - realizzato dai Thompson quand’erano ancora una coppia, 39 dal
primo e a lungo unico album solista di Linda, 22 dal suo allora inaspettato
ritorno in sala d’incisione e 11 "appena" dal suo ultimo lavoro
in studio.
Nel frattempo, però, Linda si è trovata nella condizione di non poter
più cantare, perché la disfonia idiopatica diagnosticatale decenni or
sono - un disturbo neurologico per cui i muscoli della laringe arrivano
a compiere movimenti involontari e parossistici - le ha progressivamente
sottratto il controllo sulle note e sulla loro emissione. La contromisura
adottata da Linda è stata, quindi, quella di reclutare, tra amici, familiari
e colleghi, undici diversi cantanti (maschile sovraesteso) pronti a fare
le sue veci in un disco non a caso intitolato Proxy Music,
cioè "musica per procura", e introdotto da una copertina in
cui Linda, oltre a citare per filo e per segno la grafica dell’omonimo
esordio a 33 giri dei Roxy Music di Bryan Ferry e Phil Manzanera, si è
fatta immortalare, all’età di 76 anni, truccata e vestita come la modella
norvegese Kari-Ann Moller - oggi insegnante di yoga nonché moglie di Chris
Jagger - sulla confezione gatefold di quel vinile targato 1972.
E se è certo che l’ironia, in un modo o nell’altro, salvi la vita, soprattutto
nei suoi momenti più difficili, contemplare il sorriso smagliante e scherzoso
di Linda sulla copertina di Proxy Music, talmente smagliante da
far supporre possa restare sospeso in aria, fluttuante, anche quando il
disco in questione venga riposto e archiviato (proprio come accadrebbe
al gatto del Chesire dei libri di Lewis Carroll o al felino del paradosso
di Schrödinger), costituisce un piacere altrettanto impagabile. Meno agevole,
invece, è l’addentrarsi tra le pieghe dell’opera, di per sé né brutta
né malriuscita (ci mancherebbe), ma in qualche misura sin troppo somigliante
a un tribute-album dedicato a Linda in assenza di classici, ossia con
canzoni affini al canone aristocratico del suo folk-rock sebbene non ancora
abbastanza stagionate per imprimersi nella memoria.
Certo, l’esuberanza scozzese e folkie dell’iniziale The
Solitary Traveler, cantata dalla figlia Kami, andrebbe ascritta
alla manualistica del genere, ma ci si chiede anche se quest’ode alla
solitudine della strada sia reale oppure, essendosi Linda risposata subito
dopo il divorzio da Richard e durando, il suo secondo matrimonio, appunto
da 42 anni, sia un semplice frutto del mestiere. Nella ballata pianistica
Or Nothing At All, Martha Wainwright si sforza più di sembrare
la zia acquisita (in realtà le due non sono parenti, ma Linda è sempre
stata amicissima di sua madre, la canadese Kate McGarrigle) che di essere
se stessa, mentre il fratello Rufus non riesce a scostarsi dai propri
clichés in una Darling This Will Never Do ispirata dalla differenza
di età tra Cher e l’attuale fidanzato di costei (!) e giocata sulle sfumature
jazzy di un cabaret dell’America anni ’30.
Malgrado le eccezioni di una sentita Bonnie Lass,
malinconico traditional rivisitato in punta di chitarra grazie alle voci
impeccabili dei Proclaimers, e di un lamento sui malesseri dell’invecchiare
interpretato dalla britannica Ren Harvieu (I
Used To Be So Pretty, con un bravissimo Richard Thompson alla
sei corde), lo schema di Proxy Music resta più o meno sempre
lo stesso, tanto divertito (e a tratti divertente) quanto autocitazionista
e autoreferenziale. Qualcuno troverà spassosa, o addirittura toccante,
l’idea di avere John Grant alle prese con un folk elettrico e modernista
recante il titolo di John Grant e riguardante la sessualità dell’autore,
in particolare la relazione irrisolta con la defunta madre mai riuscita
a digerire fino in fondo il fatto di avere un figlio gay. Ma qui, come
nell’ultima Those Damn Roches, dove Teddy Thompson ripassa in pratica
tutta la genealogia di famiglia, passando in rassegna le statunitensi
Roches, le McGarrigle, i Wainwright, Norma Waterson, Martin Carthy e gli
stessi Thompson, sembra di origliare dal buco della serratura un simposio
tra amici, forse interessante e significativo per loro ancorché non esattamente
irresistibile per tutti gli altri.
Poi, nell’epoca della frammentazione dei contenuti, da Proxy Music
uno o più canzoni da inserire in una playlist spunteranno anche, magari
promosse a pieni voti da critici ai quali individuare riferimenti, parentele
e ricorrenze fa sentire, di solito, molto intelligenti. Chi scrive, invece,
continua a rimpiangere i tempi in cui ogni nuovo disco, persino il più
"sbagliato" e irrisolto, tentava comunque l’esplorazione di
un mondo alternativo, sconosciuto o possibile: in Proxy Music,
al contrario, i mondi invisibili sono rimasti ai margini di una riunione
di condominio tra consanguinei e conoscenti. Tutto legittimo, è ovvio,
ma anche tutto mortalmente noioso nonostante il dispendio di umorismo
e spiritosaggini.
La scaletta, i protagonisti 1. The Solitary Traveller - Kami Thompson
2. Or Nothing At All - Martha Wainwright
3. Bonnie Lass - The Proclaimers
4. Darling This Will Never Do - Rufus Wainwright
5. I Used To Be So Pretty - Ren Harvieu
6. John Grant - John Grant
7. Mudlark - The Rails
8. Shores of America - Dori Freeman
9. That's the Way the Polka Goes - Eliza Carthy
10. Three Shaky Ships - The Unthanks
11. Those Damn Roches - Teddy Thompson