:: Johnny Rivers - Secret Agent Man
 

Johnny Rivers
Secret Agent Man - The Ultimate Anthology 1964/2006
[Shout! Factory/Soul City 2006]

1/2

Innanzitutto concentratevi sul nome dell'etichetta che ha licenziato questo disco. Memorizzate la ragione sociale e tenetela a mente per i futuri acquisti, poiché questa label fondata nel 2003 da tre ex-dipendenti della Rhino - Richard Foos, Bob Emmer e Garson Foos - è riuscita a crearsi in pochi anni una reputazione paragonabile forse soltanto a quella della citata azienda del rinoceronte, spesso incalzandola tramite ristampe e produzioni magari non altrettanto sontuose in termini di confezione ma quasi sempre equivalenti quanto a correttezza filologica, passione operativa, scrupolo della ricerca. Annotato dunque l'appellativo Shout! Factory quale indicatore di mercanzie da acquistare a scatola pressoché chiusa, sgombrate la mente per aggiungere anche, casomai vi fosse sfuggito fino ad oggi, quello di John Henry Ramistella, newyorchese di 65 primavere meglio conosciuto come Johnny Rivers e dal 1964 (anno dell'esordio ufficiale su album) artefice di uno tra i più felici e duraturi matrimoni tra rock'n'roll, folk, errebì e psichedelia della musica popolare americana tutta.

Sommando i due addendi si ottiene Secret Agent Man - The Ultimate Anthology 1964/2006, che nonostante alcuni validi predecessori (penso al singolo Raven Summer Rains: The Essential 1964-1975 dello scorso anno o alla doppia The Anthology 1964-1977, uscita per la stessa Rhino tre lustri addietro) rappresenta il compendio più efficace e significativo sulla carriera dell'artista, qui ripercorsa in panoramica dal frenetico debutto sul palco del Whisky A Go Go - il locale dell'ex-poliziotto Elmer Valentine sul Sunset Strip di West Hollywood - ai rari sebbene impeccabili titoli delle ultime stagioni, profumati di blues e California anni '70. Tante enciclopedie si sono già soffermate sui primi passi di Rivers, quasi unanimemente ritenuti i più eloquenti del suo intero percorso discografico; basterà pertanto ricordare che nelle sue canzoni degli anni '70 il rock'n'roll di Chuck Berry (Memphis, Maybelline), le ruvide scale blues di Willie Dixon (Seventh Son), il folk impegnato di Pete Seeger (Where Have All The Flowers Gone) e la nuda espressività dei traditionals (Midnight Special, trasfigurata in un laid-back blueseggiante del quale farà tesoro, quattro anni dopo, John Fogerty) confluiscono in un calderone di american-music ancora adesso strepitoso per naturalezza ed entusiasmo, perfino indimenticabile quando rischia chitarre cinematiche alla Link Wray (accade nella title-track, scritta da PF Sloan per una serie televisiva e poi diventata un pilastro dei concerti dei Devo) e setosi arrangiamenti orchestrali tra soul e Bacharach (quelli che avvolgono Poor Side Of Town, ballata capolavoro al numero 1 delle classifiche pop nel 1966). Parimenti, ogni dispaccio pervenuto da Rivers dagli anni '90 in poi (quindi l'omaggio al r'n'r formato Sam Phillips di The Memphis Sun Recordings ['91], il rock'n'soul sciccoso dell'eccellente Last Train To Memphis ['98] e le cartoline da Big Sur dell'altrettanto riuscito Reinvention Highway ['04], senza dimenticare il grintoso live Back At The Whisky ['01]), è stato minuziosamente analizzato, nonché lodato, nel suo morbido impasto di atmosfere vintage e inalterata duttilità vocale.

In questa sede, insomma, mi piacerebbe sottolineare la modernità e il valore del Johnny Rivers più ingiustamente trascurato, quello che dalla seconda metà dei '60 fino alla fine del decennio successivo fonda una propria etichetta (Soul City), parte per la tangente e realizza una serie meravigliosa di album totalmente alieni da qualsiasi logica commerciale, più che altro improntati alla rilettura di brani altrui effettuata con sensibilità senza pari e prossimi al cantautorato più puro e visionario del periodo. Non che il nostro dimentichi la raucedine delle origini (si ascolti al proposito il focoso Last Boogie In Paris ['74]), ma sta di fatto che la sua nuova missione sembra essere quella di porgere all'ascoltare versioni definitive di brani ormai noti, inevitabilmente interpretati facendo risuonare le corde nascoste delle canzoni, distillandone inedite fascinazioni metafisiche, penetrando il cuore del songwriting con l'acume e la sicurezza del migliore degli interpreti.

In Secret Agent Man non ha purtroppo trovato spazio la Rock Me On The Water dolcissimamente elegiaca, superiore persino al già favoloso prototipo, che Rivers decantò dalla scrittura di Jackson Browne nel magnifico Homegrown del '71, degno gemello di altre misconosciute pietre miliari che s'intitolano Changes ('66), Rewind ('67), Realization ('68), Slim Slo Slider ('70), L.A. Reggae ('72), Road ('74), New Lovers And Old Friends ('75), Wild Night ('76), Outside Help ('77), Borrowed Time ('81) e racchiudono una stringa di cover memorabili, da James Taylor a Gram Parsons, dai Creedence a Paul Simon, da Tony Joe White ai Procol Harum. Ci sono però le intense pennate folk di Into The Mystic (Van Morrison) e un'amarissima The Tracks Of My Tears (Smokey Robinson), un episodio dei Beach Boys da vero intenditore (la movimentata Help Me Rhonda) e una parafrasi dei Byrds (Feel A Whole Lot Better) in sublime valzerino country-rock diviso tra sollievo e rimpianto. C'è, inoltre, una sovrumana Positively 4th Street, che caso più unico che raro si è meritata, nel 2004, una citazione da parte delle autografe Chronicles di Bob Dylan ("When I heard him sing my song, it was obvious that life had the same external grip on him as it did to me.") e che avviluppa l'archetipo dylaniano di sordo rancore in una lenzuolata di malinconia asciutta, folkie con rigore, come a suggerire che certe ferite cicatrizzano sul corpo senza smettere di mortificare l'anima.

Partite da qui se volete aprire la porta che conduce ai segreti di Secret Agent Man e vi farà perdere la testa per il Frank Sinatra del blues, il Solomon Burke del rock'n'roll, il B.B. King del country: signore e signori, Johnny Rivers.
(Gianfranco Callieri)

www.johnnyrivers.com
www.shoutfactory.com

 


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