Bob Seger - Greatest Hits vol.2 Capitol 2003

La domanda "ma davvero c'era bisogno di una seconda raccolta di successi" viene spazzata via al primo ascolto: sì, il bisogno c'era, perché brani quali Her Strut, Sunspot Baby, The Fire Down Below o Rock And Roll Never Forgets non potevano essere omessi da una compilation che ambisse a contenere le cose migliori prodotte in trent'anni di onorata carriera da quella formidabile macchina di rock'n'roll che risponde al nome di Silver Bullet Band. Come mi era già successo in occasione dell'uscita del primo best (anno di grazia 1994), anche adesso sono giorni che non ascolto altro: troppa la voglia del leone di Detroit Bob Seger e dei suoi proiettili d'argento, troppo forte il desiderio di ritornare sui passi di una musica ineguagliata e forse ineguagliabile. I neofiti dovrebbero buttarvisi sopra a pesce; gli appassionati di vecchia data potranno ascoltare in versioni di scintillante fedeltà audio un repertorio che non ha mai brillato per qualità d'incisione. Ci sarebbero anche alcune rarità, ma non mi sembra materiale per cui strapparsi i capelli: i pezzi estratti da colonne sonore sono dignitosi seppur non irresistibili nei casi di Understanding e Chances Are, salvo scadere poi nel vergognoso con una Breakdown che, con la sua ritmica anni '80 e squallidi synth che sguazzano dappertutto, si sarebbe dimenticata volentieri, mentre i due inediti assoluti - Satisfied e Tomorrow - rollano hard con discreta convinzione senza tuttavia impressionare più di tanto. Restano però 11 tracce che definire memorabili è riduttivo; resta la micidiale compattezza della Silver Bullet Band (tra i cui membri è necessario menzionare perlomeno Alto Reed, 18 anni di servizio al sax, e il vigoroso David Teegarden, per 6 ai tamburi) e del suo mainstream-rock capace di coniugare spirito & divertimento dei '50 con i tour de force live dei '70; restano soprattutto il trasporto, la duttilità e l'estensione dell'incredibile voce di Bob Seger, che sapeva - sa? - rapire i sensi con una timbrica alta e squillante, carica di rabbia operaia e spicciole eccitazioni, ma pure accartocciarli in tenere ballate all'insegna dei ripensamenti e della nostalgia, senza mai smarrire un'anima black che rifulge in una spettacolosa rendition del classico soul Tryin' To Live My Life Without You, tratto da Nine Tonight dell'81.

Negli States, Seger è considerato un artista da quattro soldi, un rocker buono al massimo per camionisti e disadattati delle periferie (col massimo rispetto per i camionisti e per i disadattati, s'intende). La sua audience e la sua musica vengono definiti con lo sprezzante epiteto di white trash. Be', signori, sul piano strettamente artistico c'è poco da eccepire, per quanto mi riguarda siamo sui livelli di Springsteen, Petty, Mellencamp e un gradino sopra tutti gli altri: rock'n'roll da classe lavoratrice elevato all'ennesima potenza dove i riff degli Stones si sposano a un carburante fiatistico inesauribile, il dinamismo urbano del quale trova il suo sfogo naturale nella dimensione on stage. Per quanto concerne le liriche va detto una volta per tutte che, pur non possedendo le doti da storyteller di Bruce, Seger ha comunque saputo archiviare vertici introspettivi di tutto rispetto.

C'è tanta malinconia, in queste canzoni, e la si può ascoltare nel pianoforte gigione di Bill Payne sulla dondolante melodia della Shame On The Moon di Rodney Crowell, dal sottovalutato The Distance dell'82 (peccato per l'esclusione di Love's The Last To Know e Comin' Home), come nei versi - "Ora sei un po' più vecchio e molto meno coraggioso / Di quanto non lo fossi un tempo" - che aprono la scorribanda blue-collar di RnR Never Forgets, nel raggelante ritratto dell'ultimo buco di un tossico delineato in una Manhattan di rara energia (forse, insieme all'accantonata By The River, l'unica cosa buona del deprimente It's A Mystery del '95) come nel magone gospel - gli Eagles ai cori - della meravigliosa Fire Lake, quella dell'immortale verso "Who wants to break the news about Uncle Joe / You remember Uncle Joe / He was the one afraid to cut the cake / Who wants to tell poor Aunt Sarah / Joe's run off to Fire Lake". Si tratta però di una malinconia positiva, che guarda al passato, soprattutto alla gioventù, alle sue premesse idealistiche e alle sue potenzialità (un tema ossessivo, per il nostro), allo scopo di rinvenire concretezza e dignità nel presente. "Sedici anni, dove se ne sono andati?" si chiedeva Bob nel 1985: be', sapete, io i miei li ritrovo tutti nei 6 minuti e passa di Katmandu, una roba che assomiglia tanto a Chuck Berry sotto anfetamine e in probabile overdose di ottoni, una di quelle cose che, al solo pensiero di poterle ascoltare, ti fanno alzare la mattina con un sorriso e una bella voglia di cantare. Quindi i miei sedici anni sono Bob Seger, ok, ma lo sono anche i 25 e grazie al cielo lo saranno anche, buon disco nuovo o meno, i 50, i 75, i 100 e i 125.
(Gianfranco Callieri)

 


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