:: Bob Seger - Il ritorno del leone di Detroit
 

Bob Seger
Face the Promise
[Capitol 2006]

White trash, spazzatura bianca, analfabeta con villa da gran signore e naso otturato dalla cocaina. Così Al Perry, nel corso di un non memorabile tour italiano (se non ricordo male al fianco di Danny Stuart), giudicava, e probabilmente giudica tuttora, Bob Seger, il leone di Detroit, il ruggito del Michigan, l'uomo che, accompagnato dall'inseparabile Silver Bullet Band, ha scritto alcune delle pagine più epiche, sofferte, malinconiche e travolgenti dell'heartland-rock della classe operaia. Mentre il sottoscritto si affannava a difenderlo, provando a sottolineare la profondità di alcune liriche e gli evidenti rimandi al rock'n'roll degli anni '50, a Van Morrison, agli Mc5 e a Bob Dylan, Perry mi rispondeva sprezzantemente che sì, Seger poteva anche ascoltarlo con piacere, ma per lui non era diverso da Cher, Bonnie Tyler o gli Asia. Questo per dire quanto sia importante, per giudicare un qualsiasi prodotto discografico, inquadrarlo nel giusto contesto. Difatti in America, dove la percezione generale di Seger è più o meno quella esplicitata da Perry, Face The Promise è piaciuto molto. Non solo perché e il suo primo lavoro in studio dopo undici anni di silenzio e quindi arriva a placare la "fame" che del personaggio potevano avere tutti coloro che gli avevano garantito in passato vendite multimilionarie; credo piuttosto che alcuni tratti evidentissimi del suono che lo caratterizza, ovverosia un gonfiore patinato e una "muscolarità" tanto altisonante quanto poco spontanea, siano stati perdonati di buon grado a quello che è appunto considerato il massimo esponente di certo rock sgargiante, zotico e tendente alla pacchianeria che oltreoceano chiamano "meat-and-potatoes", carne e patate.. Chi invece, come il sottoscritto, ha sempre collocato la carriera di Seger su un gradino ben più alto e più o meno paritetico a quello di un Bruce Springsteen, deve necessariamente porsi qualche domanda in più. Il Bob Seger degli anni settanta era un animale rock capace di azzannare con la stessa carica e la stessa passione rhytm'n'blues e r'n'r delle origini, il grezzo heavy-blues della tradizione sudista e il suono metallico della Motor City in cui era nato, il furore proletario di John Fogerty e quelle struggenti ballate da grande freddo interiore che avevano reso epocale la stagione del country-rock californiano.

Il Bob Seger di Face The Promise, sciolte le fila della Silver Bullet e reclutato un manipolo di professionisti nashvilliani, si rivela tutt'altra cosa, ed è giusto e comprensibile che sia così, anche perché a sessantun anni sarebbe ridicolo giocare ancora ad averne venti. Considerato il tema portante e ossessivo della seconda parte della sua carriera (cioè l'invecchiamento, lo spegnersi dei sogni di gioventù, il passaggio del tempo che cancella speranze e aspettative di una vita), considerato il titolo inequivocabile ("affrontare la promessa", forse quella di rivoluzione, conforto e cambiamento incarnata dall'idea stessa di rock'n'roll?), il nuovo album di Seger - mi dicevo - non potrà che essere un lavoro onesto, genuino e sentito. Be', onesto e sentito lo è senz'altro, perlomeno in testi ancora testardamente ancorati alle gioie e alle preoccupazioni, alla vita e alle speranze della workin' class. In quanto alla genuinità dei suoni, ecco, quella è andata a farsi benedire in un anodino pastone di mainstream-rock espunto di ogni tentazione blue-collar. Anzi, non saprei nemmeno dire, in tutta onestà, se Face The Promise sia davvero un disco smaccatamente "rock": a giudicare da episodi come Are You, con tutto quel rullare di tamburi, quegli assoli preconfezionati, quei cori femminili un tanto al chilo, sembra piuttosto di trovarsi di fronte a un prontuario di roccioso soul da classifica, aggressivo nell'atteggiamento ma mai cattivo per davvero. La stessa title-track assomiglia a un rockabilly bombardato di estrogeni, anche se la palma di brano più artificioso dell'intera raccolta spetta alla cacofonica Simplicity e alle sue linee di basso cavernose, alla monotonia dei suoi fiati, a tutte le sgommate di chitarra che appaiono nella parte centrale senza andare da nessuna parte (e lasciamo perdere, per carità di patria, il siparietto da metallaro sedicenne inscenato in una Between d'involontaria comicità). Il duetto con Patty Loveless in The Answer's In The Question esagera un po' con la saccarina (elemento che il Bob Seger degli ultimi venticinque anni non ha mai dimostrato di saper dosare troppo bene), mentre ci si domanda se ridere o piangere di fronte alla Real Mean Bottle di Vince Gill riletta con l'esagitato Kid Rock, scalpiccìo honky-tonk indubbiamente divertente ma che mi aspetterei di trovare al limite in un album di Kenny Chesney o Toby Keith. Nonostante questo, delle altre canzoni è onestamente impossibile parlar male, perché seppur appesantite da sonorità anonime, la tirata Wreck This Heart macina rock'n'roll senza far rimpiangere i tempi belli, No Matter Who You Are e la marziale Won't Stop riescono a rincorrere l'epica senza sprofondare nel ridicolo, The Long Goodbye attesta che Seger è ancora in grado di scrivere una ballata che sa essere toccante evitando di piagnucolare. No More l'avrei preferita senza il diluvio d'archi che ne zavorra l'intero svolgimento, ma non chiedetemi di essere più severo di così: ancorché mi risulti incomprensibile, nell'edizione limitata dell'album, la presenza di un dvd con devastanti versioni live di Still The Same e Hollywood Nights, a.d. 1978 (materiale che pare piazzato lì appositamente per farsi del male e suggerire paragoni improponibili), il leone di Detroit è tornato a ruggire, con voce sempre bellissima, e tanto basta.

Qualche anno fa, ai tempi della sua latitanza discografica, un website gestito da fans irriducibili aveva lanciato una petizione affinché Bob Seger tornasse a calcare le assi dei palcoscenici. Il loro slogan era questo: He's not meant to be perfect, he's just meant to be true (non ci aspettiamo che sia perfetto, ci basta sia vero). Ora il leone s'è fatto vivo di nuovo, e a giudicare da Face The Promise si direbbe abbia voluto imboccare la strada opposta, provando a tirarsi a lucido senza pensare a mantenere intatta la sua proverbiale autenticità. Se non c'è riuscito del tutto, per fortuna, è perché da qualche parte un fuoco - quello che non dimentica mai - brucia ancora. Sappiamo tutti come si chiama quel fuoco, e alla sua causa Bob Seger ha contribuito in così tante occasioni che non c'è ragione per non portargli sempre comunque il massimo rispetto, perciò bentornato. E' bello sentirti di nuovo.
(Gianfranco Callieri)

www.bobseger.com
www.capitolrecords.com

 


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