Jennifer Warnes
Famous Blue Raincoat: The Songs Of Leonard Cohen - 20th Anniversary Edition
[Porch Light/Shout! Factory  2007]



L'idea dell'artista visuale Yann LeGuennec, i cui effetti pratici possono essere rintracciati all'indirizzo www.datapainting.com, è stata quella di mettere online diverse installazioni pittoriche realizzate tra il 1990 e il 1996. Bella forza, direte voi, l'idea da sottolineare dove sta? Be', nel fatto che le vere e proprie opere d'arte non sono quelle banalmente appollaiate in rete, bensì quelle modificate (network generated) dalla consultazione dei navigatori: le tele virtuali vengono infatti ritoccate, con graffi e appositi segni di usura, ogni qualvolta siano "cliccate" da un nuovo utente. Sicché ogni dipinto risulta essere una composizione dinamica, invariabilmente e infinitamente trasformata da una serie di interventi casuali, disordinati e diacronici. Pensandoci bene, si tratta di un modo intelligente di ripensare la rete e i suoi contenuti: una forza magmatica in grado di indicare differenze, stimoli culturali, pensieri alternativi. E' alla rete, in fondo, che dobbiamo alcune delle riscoperte più sorprendenti degli ultimi anni, o alcuni dei meno prevedibili spostamenti di prospettiva critica.

Jennifer Warnes
, ad esempio, non fosse per la silenziosa moltitudine di appassionati proliferante in rete, sarebbe ancora ricordata come la voce dietro a due esecrabili successi degli anni '80, entrambi tratti da colonne sonore. Mi riferisco ovviamente alla Up Where We Belong di Buffy Sainte-Marie reinterpretata con Joe Cocker per Ufficiale E Gentiluomo (1983) e all'ancor più tronfia (I've Had) The Time Of My Life scritta nel 1988 da Bill Medley come tema portante di Dirty Dancing. Eppure nella sua carriera c'è di più. Nella prima parte, l'omonimo Jennifer Warnes del 1977 (quello della celeberrima Right Time Of The Night) e il successivo Shot Through The Heart ('79), posteriori a un Jennifer del '72 prodotto nientemeno che da John Cale e votati a un'estetica AOR invecchiata con dignità. Negli ultimi tempi (mica tanto ultimi, a dire il vero), il folk-pop elettroacustico dell'ottimo The Hunter ('92), con una sbalorditiva rilettura dei Waterboys di The Whole Of The Moon, e le contemplative atmosfere rootsy del sottovalutato The Well ('01). Nella fase di mezzo, infine, un piccolo, grande disco come Famous Blue Raincoat - The Songs Of Leonard Cohen ('87), malinconico e delicato tributo alle canzoni del canadese errante oggi ristampato dalla sempre più benemerita Shout! Factory proprio sulla scorta dello schiamazzo generato attraverso la rete da un nutrito gruppo di estimatori che per il ventennale della pubblicazione pretendeva una nuova edizione con tutti i crismi.

Lode quindi alla Shout! Factory, che ha fatto le cose come si deve, rimasterizzando il tutto ad arte e aggiungendo quattro pezzi inediti alla scaletta originale, e lode a Jennifer Warnes, entrata in punta di piedi nel mondo di Leonard Cohen per riconsegnarcelo in una nuova luce di sentimenti e inquietudine. I due, del resto, all'epoca dei fatti non erano certo estranei, dacché la Warnes, oltre ad avere condiviso con lui il palco nei tour del '72 e del '79, aveva già interpretato il ruolo di corista in due album di Cohen, Live Songs ('73) e Various Positions ('84) (e sarebbe poi comparsa anche in I'm Your Man ['88] e The Future ['92]). Difatti in Famous Blue Raincoat ci sono la benedizione e lo zampino dello stesso Cohen, che prende parte alla Joan Of Arc collocata a metà disco aiutando la Warnes a trasformare una short-story su di un'amore da vicoli in un racconto di potenza e lunghezza epiche, culminante in un refrain di sciolta coralità. Vinni Colaiuta è ancora oggi uno dei migliori drummer al mondo, ma come qui accade può anche rivelarsi piuttosto impersonale, e in retrospettiva il suo tocco molto anni '80 è forse ancora oggi l'unico punto debole dell'intero lavoro.

Per il resto, come lamentarsi dell'assolo di Stevie Ray Vaughan che serpeggia metallico e fascinoso nel pop magniloquente di una First We Take Manhattan altresì sostenuta dalle percussioni di Lenny Castro e dalla chitarra ritmica di Robben Ford? Come deplorare la solarità country-rock di una Coming Back To You dove appaiono la steel di David Lindley, la sei corde di Fred Tackett dei Little Feat, il basso di Jorge Calderon e le doppie voci fradice di soul di Bobby King e Terry Evans? Se Bird On A Wire diventa un favoloso gospel bianco, la title-track sfiora a più riprese il capolavoro intingendo la fredda solitudine newyorchese del prototipo in una sobria elegia per archi, violino solista (Sid Page) e sax randagio (Paul Ostermayer). Dopo la delicatezza folkie di Song Of Bernadette è il turno di una toccante esecuzione a cappella di A Singer Must Die dove dieci voci differenti vengono arrangiate da Van Dyke Parks, subito dopo seduto dietro alle tastiere di una sognante Came So Far For Beauty. Tra i brani aggiunti, oltre al folk-rock semiacustico di Night Comes On e a quello full-band di una Ballad Of The Runaway Horse in cui la nostra (complici la steel di Greg Leisz e le chitarre di Dean Parks e Doyle Bramhall II) assomiglia alla Rickie Lee Jones degli esordi, spiccano l'asciutta dichiarazione d'amore di If It Be Your Will e una Joan Of Arc stavolta abbinata ad una vera orchestra.

Certo, nulla che possa convincere il fan di Cohen anche all'epoca sospettoso, o chiunque, con ragione da vendere, vorrà leggere in queste canzoni un tentativo di addomesticare, di rendere meno violente e brutali quelle che di base sono rancorose meditazioni sul tradimento e l'abbandono, sulla fuga e il disincanto. Ma di Leonard Cohen ce n'è uno solo, non c'è gabbia interpretativa capace di contenerlo. La sua Famous Blue Raincoat farà sempre un male cane a qualsiasi ascoltatore. Quella di Jennifer Warnes, invece, sembra fatta apposta per consolare e rasserenare, e sapete meglio di me quanto valore possano avere, nei momenti giusti, una consolazione non patetica e un pizzico di genuina serenità.
(Gianfranco Callieri)


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