Paul Brady
Unfinished Business
[Proper 2017
]

paulbrady.com

File Under: autunni irlandesi

di Yuri Susanna (25/09/2017)

Non pubblicava canzoni nuove dal 2010, Paul Brady. In mezzo c'è stata, è vero, la riuscita celebrazione delle Vicar St. Sessions (rimaste per il momento ferme al volume 1), a mantenere l'attenzione su di lui. Ma per un autore definito, finanche nella biografia a lui dedicata da Allmusic, "prolifico" sette anni di silenzio sembrano tanti. Anche perché Brady nella (e della) musica vive fin dagli anni '60 e nel decennio successivo ha avuto modo di incrociare la strada di realtà importanti come i Planxty, prima di realizzare uno dei dischi chiave del celtic folk revival di allora, in coppia con Andy Irvine. A partire dagli anni '80 ha quindi trovato una certa regolarità nella pubblicazione di album devoti a un pop-rock di impronta folk ma aperto a contaminazioni soul/r&b, che lo hanno un po' alla volta fatto crescere nella considerazione degli appassionati, come una specie di Van Morrison in minore. Il blueprint di questo percorso andatelo a rintracciare in Hard Station, album del 1981 che nelle fiere del vinile si porta via ancora per un pugno di euro e che, nonostante qualche concessione al suono dell'epoca, resta il miglior punto di partenza per esplorare l'opera di questo irlandese.

Brady ha così attraversato anche i due decenni successivi, i '90 e gli anni zero, arricchendo costantemente la sua produzione con lavori passati un po' sottotraccia ma sempre fedeli a un songwriting di comprovata qualità. Ora il nostro ha tagliato il traguardo dei settanta (è nato a maggio del 1947) e per questo "ritorno" ha composto a quattro mani la maggior parte del repertorio che va a formare la scaletta di Unfinished Business: cinque brani sono scritti con Sharon Vaughn, tre con Paul Muldoon, uno con Ralph Murphy. E i due rimanenti, Lord Thomas And Fair Ellender e The Cocks Are Crowing, sono traditional: segno forse che la vena creativa non è più quella di un tempo. E una certa stanchezza, un'aura di malinconia, permea il disco, nel quale gran parte degli strumenti sono suonati e sovraincisi dallo stesso Brady, che ha registrato il tutto nel suo studio di Dublino nel corso di quattro anni, senza l'idea precisa di un album in mente. Il risultato è che anche negli episodi potenzialmente più vivaci, per esempio i singulti errebì di Something to Change o il celtic soul di Maybe Tomorrow, c'è un non so che di malinconico, un tono dimesso che impedisce alle canzoni di prendere il volo come potrebbero.

Intendiamoci, i brutti dischi sono altra cosa, qui siamo di fronte a un lavoro gradevole, che si fa ascoltare con piacere: il frutto di un'idea artigianale della forma canzone, realizzato da uno che sa mettere insieme i pezzi e farli funzionare. I testi poi sono come sempre interessanti e a tratti anche arguti, vedi la divertita dichiarazione di incompatibilità di I Love You But You Love Him, ma l'impronta musicale, pur presentando i soliti ingredienti, risulta in qualche modo opaca, come rassegnata alla propria inattualità. Manca probabilmente la mano di un produttore che aiuti l'autore a mettersi in gioco, imponga soluzioni più mordaci negli arrangiamenti, dia il giusto rilievo alle canzoni. C'era piaciuta molto e ci aveva convinti e conquistati la festa delle Vicar St. Sessions, di cui aspettiamo a questo punto un nuovo capitolo. Sarebbe un modo più degno, in attesa che a Brady torni il coraggio di osare un po' di più, di celebrare la maturità di uno degli unsung heroes della nostra musica. Per la pensione, caro Paul, c'è ancora tempo…


    


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