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urban folk di
Fabio Cerbone (23/01/2018)
Tornato
alla naturalezza di un suono live in studio, i musicisti più fidati che lo circondano
e "buona la prima", James Maddock recupera anche quella semplicità e immediatezza
fra canzone d'autore, sentori folk rock urbani e tradizione roots che hanno caratterizzato
i migliori episodi della sua produzione discografica. Insanity vs. Humanity
è difatti l'album che risolleva le quotazioni di Maddock, inglese trapiantato
negli States ed ex leader del progetto Wood, dopo un precedente episodio, The
Green, che soffriva di qualche eccesso in fase di arrangiamento. Non
si tratta soltanto di una vittoria in termini musicali, ma anche di una bella
dimostrazione di scrittura, attraverso ballate dove l'uomo (e l'artista) si confronta
con la società che lo circonda, con le delusioni e la rabbia che ha provato dall'osservatorio
della sua città adottiva, New York, e lanciando lo sguardo oltre, in quei rigurgiti
di razzismo (emozionante The Mathematician,
riflessione sulla condizione dei profughi), ingiustizia, isolamento che gli Stati
Uniti hanno fatto riaffiorare in superficie.
Insanity vs. Humanity, per
l'appunto, cercando le ragioni per restare a galla in questo conflitto, lottando
e non "trovando mai pace": così infatti apre le danze I
Can't Settle, un sound acustico per impostazione ma con un cuore rock,
che avrà la meglio in tutto il disco, tra le chitarre dello stesso Maddock, il
mandolino dello storico collaboratore David Immerglick (Counting Crows) e le tastiere
e pianoforte di Ben Tivers, essenziali nell'amalgamare questi brani con una freschezza
rinnovata. Maddock conserva dalla sua parte quella voce increspata e soulful che
riconduce sempre a Rod Stewart, allo Springsteen giovanile, allo Ian Hunter delle
ballate più sentimentali. Sono punti di riferimento comuni che pulsano nell'arrambante
coralità di Watch It Burn, fra l'elegante
rock a tinte soul di Leave Me Down e in quello più stradaiolo di What
the Elephants Know, non a caso impreziosite spesso dalla presenza della voce
di un vecchio guerriero delle strade newyorkesi come Garland Jeffreys.
Quest'ultimo si aggiunge a quell'ideale pantheon di songwriter ancora
sul campo di battaglia insieme a Maddock, il quale riceve idealmente il testimone
e mostra il talento di saper descrivere una piccola grande storia in November
Tale, altro esempio di eccellente impasto soul e folk elettrico sulle
note del piano di Stivers, così come di cavalcare con ironia (The Old Rocker,
che piacerebbe davvero tanto a Rod Stewart) e ferocia (Fucked
Up World) l'esclusione di questo crudele mondo in cui siamo costretti
a vivere, cercando uno spiraglio di luce. L'album si conclude ufficialmente con
The Flame, al limite di un retro sound nella melodia un poco stucchevole,
ma le vere sorprese giungono dalle due irresistibili tracce aggiunte nell'edizione
italiana (Appaloosa, sempre attenta alla traduzione dei testi): Nearest
Thing To Hip, ode agli angoli della New York piùà amata e a rischio
di estinzione, vibra magnificamente sulle note di un celtic soul di marca Van
Morrison, mentre la dolce Fairiytale of Love
chiude con pianoforte e luci soffuse che sanno di vecchio romanticismo da songwriter
d'annara.
Ottimo ritorno mr. Maddock: ora basterebbe trovare un grafico
migliore, perché la copertina renda finalmente giustizia al contenuto.