Justin Townes Earle
The Saint of Lost Causes
[
New West
2019]

justintownesearle.com

File Under: vintage roots sounds

di Davide Albini (10/06/2019)

Otto dischi in poco più di dieci anni di carriera non sono un traguardo qualunque, soprattutto per un figlio d’arte che ha dovuto lottare fin da ragazzino con la figura ingombrante del padre. È una regola alla quale hanno dovuto sottostare un po’ tutti, ma credo valga il doppio per Justin Townes Earle, che non solo si è ritrovato faccia a faccia con l’enorme eredità artistica di Steve (e anche con tutti i suoi demoni, che purtroppo ha trasmesso al figlio, fra una tendenza alla ribellione, dipendenze varie e lunghe lotte per la riabilitazione), ma si è dovuto sobbarcare anche il peso di quel Townes, chiaro omaggio al maestro Townes Van Zandt. Logico pensare che non sia stato semplice per lui emergere con la propria personalità, diventare credibile e proporsi sulla scena delle nuove leve del folk americano.

Tutto sommato possiamo dire che Justin ce l’ha fatta, seppure tra alti e bassi, e in particolare i risultati migliori mi pare che stiano fioccando dal momento in cui ha firmato per la New West: infatti, dopo il già positivo Kids in the Street arriva oggi The Saint of Lost Causes (gran bel titolo, che rende l'idea del contenuto), album prodotto insieme al bassista Adam Bednarik con l’intenzione di asciugare il più possibile gli arrangiamenti. Sono tredici brani che sanno di vecchie bettole dalla perduta periferia americana, di honky tonk e juke joint, di country&western, blues rurale e rockabilly primitivo, con accenti folk rock che ricordano un giovane Dylan e naturalmente l’inevitabile dipendenza dall’albero musicale di famiglia.

Un disco scuro e socialmente spietato nelle liriche, che ci parlano della depressione americana a Flint, famosa città operaia del Michigan, di inquinamento, di esclusione sociale, del lato selvaggio della strada, di scelte sbagliate e criminalità, ma lo fanno con un tono che riesce ad alternare le trame notturne e dilatate della title track, un blues in minore d’atmosfera, con il velluto da elegia country di Morning in Memphis, Over Alameda e Taking to Myself, scivolando poi nel brusco, trascinante sound rurale di Ain’t Got No Money e Don’t Drink the Water. Sono episodi che echeggiano l'american music degli anni Cinquanta, le incisioni per la Sun records e i fantasmi di Hank Williams. Piacerà a chi ha già apprezzato il lavoro di artisti di culto come Paul Burch e Wayne Hancock, dominati da quell’animo country un po’ retró, il cui stile a tratti mi è risuonato familiare nei passaggi di Flint City Shake It, oppure di una Pacific Northwestern Blues tutta fremiti swing.

Ad accompagnare la voce e l’armonica di Justin, che non avrà la rabbia e la raucedine del padre, ma una certa efficace indolenza che emerge in Appalachian Nightmare (davvero un incubo di storia a tinte noir), ci sono le chitarre di Joe McMahan e Paul Niehaus (anche alla pedal steel), impeccabili nel ruolo di ricostruzione sonora presente in tutto The Saint of Lost Causes. Avvicinandosi alla piena maturità dei quarant’anni, Justin Townes Earle ha forse trovato la sua dimensione artistica più bilanciata.


    


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