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Josh Ritter
Spectral Lines
[Pytheas Recordings/ Goodfellas 2023]

Sulla rete: joshritter.com

File Under: songwriter explorations


di Domenico Grio (03/05/2023)

Josh Ritter non riuscirebbe a incidere un disco brutto neppure se ci mettesse tutto l’impegno possibile, indipendentemente dalla direzione che, di volta in volta, intenda dare alla sua musica. Partendo da questa affermazione lapidaria, molto meno iperbolica di quanto possa apparire, è ben chiaro che ogni nuova uscita a sua firma rappresenti una gioia per lo spirito e per le orecchie. Spectral Lines conferma la nostra idea e ci ripresenta, a quattro anni di distanza dall’ottimo Fever Breaks, un musicista di grandissima classe, in stato di grazia permanente. L’album, dedicato alla madre, in realtà va persino oltre le già elevate aspettative, soprattutto in termini di evoluzione espressiva e stilistica, finendo per sganciare definitivamente Josh dal ristretto universo Americana o, quanto meno, per collocarlo in un sistema più fluido, in un meccanismo dinamico che ridefinisce in maniera sostanziale i confini tradizionali dell’alt-country.

Difficile inscatolare in un preciso e univoco “genere” gli elementi che danno forma a quest’ultimo lavoro. Senza grande sforzo di creatività e con termine piuttosto abusato, lo si potrebbe classificare come indie-folk, ma la cosa presenterebbe gli stessi limiti che si andrebbero a palesare, utilizzando i medesimi criteri interpretativi, per tradurre la musica dei Wilco o dei The National, per citare forse gli esempi più pregnanti. C’è un impatto e un gusto narrativo sicuramente predominante (figlio anche della propensione letteraria di Josh, sfociata di recente nella pubblicazione del suo secondo romanzo Una grande gloriosa sfortuna), ci sono evidenti immutati richiami alle radici, c’è sempre l’ombra immanente di Bob Dylan, ma c’è una ricerca sonora nient’affatto banale e l’eleganza e la sobrietà delle melodie che circoscrivono i brani in profili pop d’assoluta eccellenza.

L’unico dato certo è invece l’abbandono delle ambientazioni rurali, in luogo di atmosfere più scintillanti, sia pure con cambi di umore repentini (dalla magica brillantezza di Strong Swimmer alla triste elegia Whaterver Burns Will Burn, il passo è brevissimo). Tutto suona molto calibrato, soffuso, in alcuni casi sussurrato, quasi confidenziale e l’effetto scenico è grandioso. È certamente un nuovo corso e ad annunciarcelo in grande stile è, da subito, l’onirica Sawgrass, alla quale seguono, in un binomio di rara grazia, Honey I Do che ricorda le cose migliori di Jeff Tweedy e la già iconica Horse No Rider che gode della preziosissima impronta impressa dal lavoro di produzione di Sam Kassirer, decisamente distante dagli umori e dalle idee di Jason Isbell, in cabina di regia nel citato precedente progetto. Molto riuscita anche la beatlesiana For Your Soul, in cui il tocco di Dietrich Strause alle chitarre si fa leggermente più ruvido, ma l’asticella si alza a dismisura nella seconda parte del disco, al punto da metterci in seria crisi sulla scelta degli episodi migliori e a lasciarci con una sensazione di smarrito appagamento allo spirare delle ultime note del trittico finale Any Way They Come, In Fields e Someday, da assaporare come un unicum inscindibile ed irrinunciabile.

Questo artista dell’Idaho è un autore ormai nel pieno della maturità e con queste poetiche “linee spettrali” che è riuscito a disegnare, raccontando dell’effimera vicenda umana e dell’amore che potrebbe aprire le porte dell’eternità, ha realizzato un piccolo capolavoro, collocandosi, a nostro modesto parere, in pianta stabile nell’aristocrazia della musica a stelle e strisce.


    



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