Josh Ritter non riuscirebbe
a incidere un disco brutto neppure se ci mettesse tutto l’impegno possibile,
indipendentemente dalla direzione che, di volta in volta, intenda dare
alla sua musica. Partendo da questa affermazione lapidaria, molto meno
iperbolica di quanto possa apparire, è ben chiaro che ogni nuova uscita
a sua firma rappresenti una gioia per lo spirito e per le orecchie. Spectral
Lines conferma la nostra idea e ci ripresenta, a quattro anni
di distanza dall’ottimo Fever
Breaks, un musicista di grandissima classe, in stato di grazia
permanente. L’album, dedicato alla madre, in realtà va persino oltre le
già elevate aspettative, soprattutto in termini di evoluzione espressiva
e stilistica, finendo per sganciare definitivamente Josh dal ristretto
universo Americana o, quanto meno, per collocarlo in un sistema più fluido,
in un meccanismo dinamico che ridefinisce in maniera sostanziale i confini
tradizionali dell’alt-country.
Difficile inscatolare in un preciso e univoco “genere” gli elementi che
danno forma a quest’ultimo lavoro. Senza grande sforzo di creatività e
con termine piuttosto abusato, lo si potrebbe classificare come indie-folk,
ma la cosa presenterebbe gli stessi limiti che si andrebbero a palesare,
utilizzando i medesimi criteri interpretativi, per tradurre la musica
dei Wilco o dei The National, per citare forse gli esempi più pregnanti.
C’è un impatto e un gusto narrativo sicuramente predominante (figlio anche
della propensione letteraria di Josh, sfociata di recente nella pubblicazione
del suo secondo romanzo Una
grande gloriosa sfortuna), ci sono evidenti immutati richiami alle
radici, c’è sempre l’ombra immanente di Bob Dylan, ma c’è una ricerca
sonora nient’affatto banale e l’eleganza e la sobrietà delle melodie che
circoscrivono i brani in profili pop d’assoluta eccellenza.
L’unico dato certo è invece l’abbandono delle ambientazioni rurali, in
luogo di atmosfere più scintillanti, sia pure con cambi di umore repentini
(dalla magica brillantezza di Strong Swimmer
alla triste elegia Whaterver Burns Will Burn, il passo
è brevissimo). Tutto suona molto calibrato, soffuso, in alcuni casi sussurrato,
quasi confidenziale e l’effetto scenico è grandioso. È certamente un nuovo
corso e ad annunciarcelo in grande stile è, da subito, l’onirica Sawgrass,
alla quale seguono, in un binomio di rara grazia, Honey
I Do che ricorda le cose migliori di Jeff Tweedy e la già iconica
Horse No Rider che gode della preziosissima
impronta impressa dal lavoro di produzione di Sam Kassirer, decisamente
distante dagli umori e dalle idee di Jason Isbell, in cabina di regia
nel citato precedente progetto. Molto riuscita anche la beatlesiana For
Your Soul, in cui il tocco di Dietrich Strause alle chitarre si fa
leggermente più ruvido, ma l’asticella si alza a dismisura nella seconda
parte del disco, al punto da metterci in seria crisi sulla scelta degli
episodi migliori e a lasciarci con una sensazione di smarrito appagamento
allo spirare delle ultime note del trittico finale Any Way They Come,
In Fields e Someday, da assaporare come un unicum inscindibile
ed irrinunciabile.
Questo artista dell’Idaho è un autore ormai nel pieno della maturità e
con queste poetiche “linee spettrali” che è riuscito a disegnare, raccontando
dell’effimera vicenda umana e dell’amore che potrebbe aprire le porte
dell’eternità, ha realizzato un piccolo capolavoro, collocandosi, a nostro
modesto parere, in pianta stabile nell’aristocrazia della musica a stelle
e strisce.