Lord of the Highway si
definiva un tempo Joe Ely, titolo di un suo fortunato disco. E
di miglia sotto gli stivali di questo cowboy ribelle ne sono passate parecchie
in più di cinquant’anni di carriera. Il concetto stesso di strada è intimamente
legato alla sua musica, che ha fatto della narrativa del paesaggio americano,
e in particolare di quello aspro e infinito del South West, una vera epopea
di suoni e canzoni, dai tempi pionieristici con i Flatlanders (insieme
agli amici di una vita, Butch Hancock e Jimmie dale Gilmore) al nuovo
honky tonk elettrico che lo ha portato sui palchi insieme ai Clash e a
Bruce Springsteen. Ecco, Springsteen, vecchio amico ritrovato che oggi
presta la voce nel duetto di Odds of the Blues, uno shuffle texano
in piena regola che ha il compito di presentare il nuovo album di Ely,
Driven to Drive, una dozzina di canzoni ispirate dal viaggio
continuo del musicista, dal suo errare per l’America e il mondo.
Road songs, nell’accezione più classica, che Joe Ely ha raccolto tra vecchi
rimasugli e inediti sparsi nell’arco di molte stagioni, rielaborandole
nel suo studio di registrazione di Austin con il contributo di pochi fidati
musicisti, tra cui spiccano l’accordion inconfondibile di Joel Guzman,
il violino di Richard Bowden, le percussioni di Pat Manske e qualche chitarra
aggiunta all’ultimo da Jeff Plankenhorn. Il concetto però resta quello
di un “fai da te” casalingo, riassunto con pochi accorgimenti, sulla falsariga
delle ultime proposte artistiche di Ely, che certamente ha attraversato
i Duemila con un profilo basso, pochi graffi d’autore e una serena età
della saggezza dove ha preferito scandagliare i cassetti della sua memoria
piuttosto che proporre qualcosa di realmente nuovo e dirompente (come
accadde ai tempi del capolavoro spanish, Letter to Laredo).
Driven to Drive non fa eccezione, anche se offre una coerenza tematica
e più generale una solidità di scrittura che lo fanno nettamente preferire
all’opaco Love in the Midst
of Mayhem, peraltro seguito da un curioso progetto con canzoni per
bambini intitolato Flatland Lullaby. Qui tutto riflette le cromature
delle moto, la ruggine dei vecchi Greyhound bus o la lucentezza dei grandi
tir utilizzati per trasportare band e strumenti al traino, con Ely che
rammenta il tempo perduto e la “condanna” del musicista in tour, a cominciare
dal brano d’apertura, Drivin’ Man.
Si tratta di un episodio acustico, con l’accordion di Guzman che dipinge
le note vivaci intorno alla voce, ben conservata, di Joe Ely.
Sono proprio questi i momenti che si fanno preferire nell’album: il boogie
rock texano ridotto all’osso di For Your Love (l’originale stava
su Dig All Night), il caracollare blues di Watchin’ Them Semis
Roll e San Antone Crawl, quello languido e notturno di Gulf
Coast Blues (anche qui brano già apparso nel sottovalutato Twistin’
in the Wind) e ancora quelle squisitezze impastate del tipico roots sound
della casa in Nashville is a Catfish e
nel piccolo gioiello al trotto sul confine messicano di Slave
to the Western Wind. Più prosaiche, sebbene perdonabili, le
fughe rock’n’roll che di tanto in tanto si concede Driven to Drive,
compresa la stessa title track, nel ricordo di quella stagione ribelle
che fu: soffrono tuttavia la mancanza di una seria produzione sia la metronomica
Didn’t We Robby, sia il rockabilly di Ride a Motorcycle,
tanto quanto una Jackhammer Rock rivestita da country rock “futurista”
alla maniera di Hi-res, vecchio e controverso album di Ely della
metà degli anni Ottanta che provava a mettersi al passo con i tempi del
digitale. Nel 2024 l’effetto è diverso e persino sensato, a patto di prendere
Driven to Drive come un’altra raccolta non esattamente “inedita”.