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Joe Ely
Driven to Drive
[Rack 'em Records/ Goodfellas 2024]

Sulla rete: ely.com

File Under: lord of the highway


di Fabio Cerbone (05/08/2024)

Lord of the Highway si definiva un tempo Joe Ely, titolo di un suo fortunato disco. E di miglia sotto gli stivali di questo cowboy ribelle ne sono passate parecchie in più di cinquant’anni di carriera. Il concetto stesso di strada è intimamente legato alla sua musica, che ha fatto della narrativa del paesaggio americano, e in particolare di quello aspro e infinito del South West, una vera epopea di suoni e canzoni, dai tempi pionieristici con i Flatlanders (insieme agli amici di una vita, Butch Hancock e Jimmie dale Gilmore) al nuovo honky tonk elettrico che lo ha portato sui palchi insieme ai Clash e a Bruce Springsteen. Ecco, Springsteen, vecchio amico ritrovato che oggi presta la voce nel duetto di Odds of the Blues, uno shuffle texano in piena regola che ha il compito di presentare il nuovo album di Ely, Driven to Drive, una dozzina di canzoni ispirate dal viaggio continuo del musicista, dal suo errare per l’America e il mondo.

Road songs, nell’accezione più classica, che Joe Ely ha raccolto tra vecchi rimasugli e inediti sparsi nell’arco di molte stagioni, rielaborandole nel suo studio di registrazione di Austin con il contributo di pochi fidati musicisti, tra cui spiccano l’accordion inconfondibile di Joel Guzman, il violino di Richard Bowden, le percussioni di Pat Manske e qualche chitarra aggiunta all’ultimo da Jeff Plankenhorn. Il concetto però resta quello di un “fai da te” casalingo, riassunto con pochi accorgimenti, sulla falsariga delle ultime proposte artistiche di Ely, che certamente ha attraversato i Duemila con un profilo basso, pochi graffi d’autore e una serena età della saggezza dove ha preferito scandagliare i cassetti della sua memoria piuttosto che proporre qualcosa di realmente nuovo e dirompente (come accadde ai tempi del capolavoro spanish, Letter to Laredo).

Driven to Drive non fa eccezione, anche se offre una coerenza tematica e più generale una solidità di scrittura che lo fanno nettamente preferire all’opaco Love in the Midst of Mayhem, peraltro seguito da un curioso progetto con canzoni per bambini intitolato Flatland Lullaby. Qui tutto riflette le cromature delle moto, la ruggine dei vecchi Greyhound bus o la lucentezza dei grandi tir utilizzati per trasportare band e strumenti al traino, con Ely che rammenta il tempo perduto e la “condanna” del musicista in tour, a cominciare dal brano d’apertura, Drivin’ Man. Si tratta di un episodio acustico, con l’accordion di Guzman che dipinge le note vivaci intorno alla voce, ben conservata, di Joe Ely.

Sono proprio questi i momenti che si fanno preferire nell’album: il boogie rock texano ridotto all’osso di For Your Love (l’originale stava su Dig All Night), il caracollare blues di Watchin’ Them Semis Roll e San Antone Crawl, quello languido e notturno di Gulf Coast Blues (anche qui brano già apparso nel sottovalutato Twistin’ in the Wind) e ancora quelle squisitezze impastate del tipico roots sound della casa in Nashville is a Catfish e nel piccolo gioiello al trotto sul confine messicano di Slave to the Western Wind. Più prosaiche, sebbene perdonabili, le fughe rock’n’roll che di tanto in tanto si concede Driven to Drive, compresa la stessa title track, nel ricordo di quella stagione ribelle che fu: soffrono tuttavia la mancanza di una seria produzione sia la metronomica Didn’t We Robby, sia il rockabilly di Ride a Motorcycle, tanto quanto una Jackhammer Rock rivestita da country rock “futurista” alla maniera di Hi-res, vecchio e controverso album di Ely della metà degli anni Ottanta che provava a mettersi al passo con i tempi del digitale. Nel 2024 l’effetto è diverso e persino sensato, a patto di prendere Driven to Drive come un’altra raccolta non esattamente “inedita”
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