Al primo
ascolto, questo disco mi ha entusiasmato. Al secondo, già stavo sbadigliando.
Al terzo volevo buttarlo dalla finestra, e non ci vuole un filosofo per
capire il perché. Come tanti ex-punk sedotti dal fascino stentoreo delle
radici, siano questi Mike Ness dei Social Distortion, Brian Fallon dei
Gaslight Anthem o Ben Nichols dei Lucero (con tutte le differenze qualitative
del caso), anche Chuck Ragan - un tempo frontman dei rumorosi Hot
Water Music - ha intrapreso da solista un fiammeggiante percorso di retroguardia,
come un esploratore delle Montagne Rocciose della seconda metà dell’800
fermamente intenzionato a riscoprire le radici della musica americana
per metterne in risalto la grinta selvatica e l’incedere ferino.
L’idea, in sé affascinante, si è rivelata di difficile attuazione per
molti, tra essi Ragan e chiunque si sia nel frattempo accorto di come
un simile progetto necessitasse di doti autoriali e virtù di scrittura
sconosciute ai più. Non solo, perché il quarto Till
Midnight (2014), ultimo album del nostro prima di una pausa durata
quasi dieci anni e prolungata oltremisura dall’irrompere del Covid su
scala globale, evidenziava limiti compositivi ormai imbarazzanti, nemmeno
più mimetizzabili attraverso la sempre indomita e al solito benvenuta
energia delle esecuzioni.
Love and Lore poteva ripartire da zero, o indicare una decisa
sterzata rispetto al passato, e invece riprende il gesto brutale di Ragan
esattamente dove l’avevamo lasciato, inaugurando le asperità con il wah-wah
scartavetrato dell’efferata All In,
assieme alla successiva Wild In Our Ways un esempio quasi paradigmatico
dell’altisonante punk-rock intessuto da trame folk tipico dell’artista,
a questo punto così automatizzato, nei comportamenti, da far sembrare
anche la peculiare raucedine della propria voce, tra urli e sussulti,
un semplice trucco di scena.
Northern World, con la sua intro elettroacustica subito violentata
da una batteria secca e da un forsennato arsenale di munizioni rockiste,
vorrebbe se non altro ammiccare all’epos stradaiolo di Bruce Springsteen
o dello Steve Earle di mezzo, ma del senso di avventura appartenuto a
costoro, dei loro ruvidi viaggi nell’immaginario di una nazione dalle
ferite aperte, resta soltanto, pallida e incolore, la mera emulsione,
un outfit sonoro da fiera campionaria del rock & roll o da stazione radio
dedicata ai mostri sacri del genere. Echo The Halls poteva scriverla
il citato Fallon in una giornata di non eccezionale ispirazione, mentre
Winter e Aching Hour scavano
più a fondo, la prima intavolando una virile ballata roots d’altri tempi,
la seconda intrecciando pose springsteeniane e lap-steel in una cornice
dall’(apprezzabile) sfondo alt.country.
Anche l’arrangiamento acustico di Waiting Out
The Storm, più intenso e funzionale di quello della penultima,
un po’ stanca Reel My Heart, contribuisce a sfumare di qualche
riflesso meno granitico l’altrimenti impassibile monodimensionalità di
Love and Lore, ma basta sintonizzarsi sul duetto con Paige Overton
di One More Shot (altro apocrifo di Earle, diciamo dal periodo
di I Feel Alright, 1996) o sul fracasso elettrico della conclusiva Hanging
On per ritrovarsi di nuovo in mezzo a una cagnara tanto epidermica
e divertente quanto prevedibile, già sentita, pronta per essere dimenticata
in un battibaleno.
Poi, per carità, meglio il fragore per nulla ipocrita di Love and Lore
rispetto a tanta e indigeribile pappetta indie oggi spacciata, almeno
nell’ambito della musica delle radici, per lo stato dell’arte. Però, nel
metterlo assieme, un po’ di fantasia in più Chuck Ragan poteva proprio
adoperarla.