Un po’ in
sordina, sul finire dell’anno e a stretto giro dal precedente Spectral
Lines, Josh Ritter, una delle penne migliori della sua generazione
(oltre che apprezzato narratore, con due romanzi sulle spalle) raccimola
nove ballate dolci e nostalgiche, le incide in pochi giorni e in presa
diretta, riducendo al minimo interventi esterni e ritocchi produttivi.
Il risultato è un album che sembra dirigersi esattamente nella direzione
opposta rispetto al citato Spectral Lines, quest'ultimo disco sì
meditabondo e di non facile approccio, ma attraversato da ambizioni sonore
e arrangiamenti assai più elaborati.
Heaven, or Someplace as Nice è la sua esatta nemesi, come
spesso è accaduto nella carriera del cantautore dell’Idaho, che ha alternato
volentieri scatti in avanti a ritorni all’ovile, raccolte dal tono folk
accorato a passaggi elettrici e persino di natura pop più sperimentale.
Qui la presenza della magica chitarra di Bill Frisell dovrebbe
nobilitare l’intero progetto, sempre condotto in porto grazie all’aiuto
di Sam Kassirer, suo collaboratore storico, e di una ristretta cerchia
di musicisti, ma la magia dell’ospite illustre appare completamente asservita
al senso ultimo di queste composizioni e all’idea stessa di Ritter, disarmato
e docile di fronte al microfono, in una sequenza che, seppur di breve
durata, sulla distanza si incarta su se stessa. Ne capiamo le intenzioni
e l’umore, ma definire Heaven, or Someplace as Nice un disco da
ascoltare intorno al fuoco di un bivacco, come una sorta di “cosmic cowboy
mini-album”, parole di Ritter o di chi per lui, è più una suggestione
creata ad arte che un dato oggettivo.
Certamente l’effetto rischia di essere soporifero, anche quando le melodie
evocano classici della tradizione come Shenandoah (la versione
di Only a River, canzone donata a
suo tempo a Bob Weir) o accelerano ritmicamente (l’unico episodio, in
verità) lungo i sentieri della roots music (Just
a Few tears Pt.2). Il cuore antico delle melodie racchiuse
in Heaven, or Someplace as Nice lo capiamo, ci arriva anche la
moderazione dello stesso Frisell, che si adatta al mood generale e non
esce mai dalla natura raccolta e intimista dei singoli episodi, ma il
dialogo fra voce, chitarre dai contorni elettro-acustici e tenerezze al
pianoforte si ripete in sequenza da The Bride a Shadows
e (Still) the Still of The Night, nel mezzo dilatandosi nei cedevoli
languori della steel guitar in Stars in the Crown (che potremmo
già immaginare in una personale interpretazione di Willie Nelson), asciugandosi
fino al solo binonio voce e chitarra di una Where The Dream Ends che
echeggia una melodia country folk da vecchio Novecento.
Quando la felpata I’m Not Smiling spegne le ultime ceneri del bivacco
sonoro di Ritter e attende il sorgere dell’alba, ci siamo accorti di avere
ascoltato un musicista a tu per tu con la sua anima più indifesa: il che
può andare bene in una serata particolarmente speciale, magari dal vivo,
con il musicista, ma su disco non ottiene gli stessi effetti. Da Josh
Ritter (e con Bill Frisell nei paraggi) ci aspettiamo, visti i notevoli
precedenti, ben altre sorprese, quelle che Heaven, or Someplace as
Nice non pare neppure abbia voglia di mettersi a cercare.