Everyone
Is Everyone viene presentato come il prequel della “trilogia delle
ombre”, conclusa un paio d’anni fa con l’ottimo People
Are Beautiful, disco che ha definitivamente appiccicato l’etichetta
di 'space kraut country' alla band di Garrett e dei suoi quattro sodali
della Nasa Country (un nome, un programma), vale a dire Odie (veterano
del basso elettrico), Kory Cook (batterista preso in prestito dalla scena
jazz), Torin Metz (chitarra solista dallo spirito hippie) e Justin Boyd
(esperto di sintetizzatori modulari ed altre diavolerie cibernetiche).
Il progetto era intrigante e stravagante ab origine e tale rimane, ma
con evidente ampliamento del raggio d’azione e diversi aggiustamenti in
corso d’opera. Sparisce definitivamente ogni accento texmex, viene incrementata
la dose di elettronica e ci si concede qualche deviazione più convinta
verso nuove pittoresche orbite, di sicuro impatto scenografico.
Questo manipolo di cowboy cosmici, come non amano farsi chiamare, innamorati
della natia San Antonio (già omaggiata con I
Love San Antone del 2021), continuano a viaggiare in astronave e ad
esportare il loro honky tonk psichedelico dalle polverose lande del Texas,
alle scintillanti praterie stellari, oltre la stratosfera, dove hanno
preso da tempo dimora i vari Johnny Cash, Doug Sahm, J.J. Cale, Carl Perkins
e Duane Allman, loro numi tutelari. Lo scopo è sempre lo stesso, far salire
a bordo della navicella tutti coloro che, stanchi dei fatti incasinati
e spesso crudeli del pianeta terra, abbiano voglia, almeno idealmente,
di puntare sguardo ed anima verso “The Great Unknown”, senza rinunciare
all’outfit da saloon. E se, affermando che la “gente è meravigliosa”,
il loro attestato di fiducia incondizionata nell’umanità lo avevano già
confezionato, adesso evidentemente era il momento di precisare che “ognuno
è ognuno”, nel senso, immaginiamo, dell’unicità, bellezza ed irripetibilità
di ogni singolo terrestre.
Funziona un po' tutto in questo nuovo capitolo e alla grande. Garrett
T. Capps ha idee e gusto, ha imparato a prendersi molto sul serio,
a svolgere con naturalezza il ruolo che si è imposto, superando ogni impaccio
iniziale, permettendosi persino il lusso di sfornare in serie delle piccole
autentiche gemme, ognuna anomala quanto basta, ognuna con un suo specifico
codice genetico. The Way It Goes Something
e soprattutto Flow State sono i brani
che più si avvicinano al modello kraut country: grande ritmica, chitarre
ad increspare la terra ed elettronica a raffinare l’aria, Money
Riff è roba fortissima, pub rock destinato a spopolare al Lonesome
Rose (il locale di Garrett a San Antonio), Sunday
Blues è una meravigliosa digressione dal retrogusto acido che
fluttua leggera a mezz’aria in assenza di gravità, utile a fornire risposte
a chi si fosse mai chiesto come potrebbe funzionare la psichedelia dei
Pink Floyd nelle mani di un manipolo di texani un po' sciroccati.
Poi c’è Ouray, di un’eleganza siderale,
un pezzo che avrebbe fatto la gioia di J.J. Cale e di un Billy Gibbons
in tuta argentata, What If We Did? un classico meno classico di
quanto possa sembrare, eterea in misura sufficiente a proiettarla in orbita
astrale e la conclusiva Into the Great Unknown che scalda i motori
ed avvia il conto alla rovescia del razzo interstellare che dovrebbe condurci
oltre le nuvole, in linea di galleggiamento con la sostanza celeste.
È senz’altro vero, al di là delle nostre complicazioni interpretative,
che la loro è semplicemente “musica folk per gente elettrica”, come si
legge in qualche nota stampa che riguarda l’album (bellissima e raffinatissima
definizione) ma, volendo renderla ancora più facile, potremmo limitarci
a dire che quella di Garrett T. Capps & Nasa Country è grande musica.
Punto. Sul filo di lana ma tra i dischi dell’anno appena trascorso.