Innerstate blues
Intervista con Stiv Cantarelli

Con la pubblicazione di Innerstate, disco solista dall'anima divisa in due fra Italia e Stati Uniti, Stiv Cantarelli ha completato una sorta di percorso, lo stesso cominciato più di dieci anni fa con i Satelite Inn e proseguito nelle diverse creature artistiche di cui è stato parte integrante e animatore instancabile (Gold Rust e The Saint Four ad esempio). L'ultima incisione, nata grazie alla collaborazione importante con i Richmond Fontaine, nome di punta del nuovo folk americano e piccole star dell'altenative country, non è altro che un premio per la costanza di Stiv, che grazie al sostegno dell'etichetta personale della band di Portland, la El Cortez, potrà anche beneficiare di un'esperienza e distribuzione internazionali. Non è tuttavia la prima volta che il cantautore italiano si misura con un progetto simile: era accaduto anche ai tempi "pionieristici" dei Satellite Inn e del loro Cold Morning Songs, prima e forse unica alt-country band italiana a pubblicare un disco per una indie americana e sostenere un tour nel pieno del fervore di quella famigerata scena roots provinciale. Oggi possiamo dire che Stiv Cantarelli abbia trovato la sua voce (anche se nuovi progetti sono già all'orizzonte) con un disco sabbioso e malinconico, in cui tutta la passione per i margini e la desolazione americana si sono tradotti in un folk rock dall'impronta personale. Dell'incontro rivelatore con Willy Vlautin e i suoi Richmond Fontaine, così come delle diverse tappe della sua ricerca musicale abbiamo parlato in questa dettagliata intervista.
(Fabio Cerbone)

foto: © Gianluca Bartoli

stivcantarelli.bandcamp.com


L'intervista
(a cura di Fabio Cerbone)


Se vuoi la domanda più banale, ma in fondo la curiosità maggiore con cui aprire l'intervista: come è nato l'incontro con i Richmond Fontaine, nome tra i più importanti del nuovo folk americano? Come sei arrivato alla firma per la loro etichetta e soprattutto alla collaborazione musicale?

Il mio primo incontro con i Richmond Fontaine risale ad oltre un decennio fa... ero già un loro fan da qualche anno e nel 2001, durante il secondo tour americano dei Satellite Inn, ho aperto un paio di loro concerti a Portland. Diciamo che c'è stata subito una specie di chimica "a pelle", a livello musicale ma soprattutto personale, e siamo diventati amici. Negli anni, la collaborazione artistica (sia coi Satellite Inn, che da solo) si è mantenuta in modo costante, abbiamo diviso concerti, locali e persino vacanze assieme. Sean Oldham (il batterista), che si occupa della gestione della El Cortez, l'etichetta con cui distribuiscono il loro dischi negli USA, è sempre stato entusiasta della mia musica, al punto che ha fatto uscire praticamente tutti i progetti in cui sono stato coinvolto ultimamente, dai Gold Rust alla "meteora" The Saint Four, e il collaborare con loro, nonostante si parli di una gestione assolutamente "casalinga" del lavoro di un'etichetta, lontanissima dai canoni standard, per me è naturale. Nel 2010, quando mi contattarono per aprire le date della parte europea del loro tour, abbiamo posto le basi per una collaborazione più diretta. In realtà già precedentemente avevamo registrato qualcosa con una formazione allargata Satellite Inn-Richmond Fontaine, ma il tutto è poi finito nel dimenticatoio (anche se ho un pezzo quasi finito, Naked Mole Rat, che prima o poi mi deciderò a pubblicare...). Una sera, in un bar di Barcellona, dopo l'ennesimo giro di birra e brandy, Sean mi ha proposto di registrare un disco solista, con i Fontaine come backing band. All'inizio ero un pò scettico (non avevo mai considerato di fare progetti solisti), poi ho cominciato a pensare che poteva essere una buona idea. E più o meno da quel periodo in poi è nato Innerstate.

Mi chiedevo soprattutto cosa ci sia di stimolante che ti ha spinto a cercare questi musicisti e questo suono: qual era l'idea che inseguivi incidendo con loro? Quali soprattutto le maggiori differenze che hai notato nell'approccio dei musicisti fra incisione e produzione...

In realtà, il progetto è stato il culmine di una ricerca, soprattutto interiore, a proposito di quello che mi sarebbe piaciuto comunicare con un disco che partiva soltanto da me. All'inizio, assieme a Dario Neri (mio "socio" nei Satellite Inn, che ha registrato le parti "italiane" e praticamente prodotto tutte le canzoni) c'era l'idea di fare qualcosa di completamente acustico. Poi, man mano che le canzoni si sviluppavano, abbiamo optato per il suono "da band", principalmente perchè l'isolamento voce-chitarra andava bene solo per alcune tematiche presenti nel disco. Per cui il fatto di affidarmi a musicisti che conosco bene e che ammiro come i Richmond Fontaine mi è sembrato naturale, più che andare alla ricerca di un sound in particolare (anche se devo dire che Dario aveva già le idee chiare su cosa voleva, molto prima di iniziare a registrare) con qualcuno che non conoscevo bene. Il loro approccio alla registrazione è molto naturale, si fidano molto dell'idea di base del produttore (in questo caso, io e Dario) e preferiscono le cose semplici, cercando di far risaltare la canzone più degli strumentisti. Il grosso del lavoro, però, l'ho fatto su di me... per comunicare in modo efficace il mood delle canzoni avevo bisogno di un grosso cambiamento, e ho dovuto lavorarci molto. Ho smesso di usare il plettro per suonare la chitarra e ho cominciato a prendere lezioni di fingerpicking (su Youtube, lo ammetto...). In più, sono andato alla ricerca di un suono più puro, più vicino al folk pre-war, anche per "asciugare" le canzoni. E' stato un duro lavoro, che però ha pagato. Da due anni a questa parte sono su questa strada e mi ci trovo a mio agio come mai prima.

Da un altro punto di vista, hai mai pensato al rischio di restare troppo identificato con il suono stesso dei Richmond Fontaine, utilizzando i musicisti come backing band nel disco? Come evolverà o sta già evolvendo il disco dal vivo con la tua band?

Ti dirò, è una delle critiche più frequenti che viene mossa al disco. Certo, con i Richmond Fontaine dentro non c'è "il pericolo" di non sapere cosa aspettarsi. In realtà il disco "doveva" suonare in quel modo. E' stato concepito on the road con i Richmond Fontaine, mentre li vedevo suonare ogni sera e mi sembra naturale che le atmosfere si siano evolute in qualcosa del genere. In più, era da qualche tempo che non toccavo quelle "corde" della mia musica e avevo voglia di darmi un'altra chance alle prese con quel tipo di materiale. Credo comunque che sia venuta fuori molta della mia "anima", oltre a quel tipo di sound, proprio per il carattere molto "personale" delle canzoni e perchè, volente o nolente, le parti melodiche sono state suonate tutte da me, che ho un tipo di approccio più "caciarone" alla composizione rispetto a Willy e soci. Portare poi il disco dal vivo ha richiesto, ovviamente, una completa rivisitazione sia del sound che dei pezzi (alcuni dei quali non si prestavano un granché per un concerto mediamente corto, come piace a me). Per il tour abbiamo "ricostruito" l'atmosfera da band assieme ad Antonio Perugini e Fabrizio Gramellini (già con me sia nei primi Satellite Inn che nei Gold Rust) cercando di non snaturare troppo la natura "intimista" del disco ma aggiungendo anche pezzi del vecchio repertorio delle mie band precedenti, assieme anche a qualche pezzo nuovo. Il risultato è stato un live veramente interessante, molto apprezzato ovunque lo abbiamo suonato, con atmosfere acustiche (senza però la solita "patina" degli unplugged, che io tendo ad evitare come la peste) e squarci elettrici miscelati a seconda del repertorio e del momento di ogni singola canzone. Un acustico "sporco", come l'abbiamo poi chiamato, una strada che ripercorreremo, ampliandola, anche in futuro.

Non è la prima volta che la tua musica guarda esplicitamente fuori dall'Italia, che si identifica con un suono molto americano, legato alla provincia alt-country, a certo indie folk. Penso ovviamente al tuo primo progetto, che hai già citato in precedenza, i Satellite Inn. Cosa ricordi di quella esperienza?

I Satellite Inn sono stati, musicalmente e non, la mia vita. Tutto quello che ho imparato sul mondo musicale lo devo ai Satellite Inn e a tutti coloro che ne hanno fatto parte, direttamente o indirettamente. E' stato un periodo se vuoi molto "pionieristico" per fare musica, dove si procedeva per tentativi e dove non tutto ha funzionato per il verso giusto, anche (ma non solo) per l'inesperienza dettata dal passaggio da bar-band di provincia a piccola realtà indipendente a tutti gli effetti. Molti di noi non erano pronti per questo "salto" e probabilmente non lo ero nemmeno io, ma è stato il periodo più bello della mia carriera musicale, soprattutto all'inizio quando ci siamo trovati a calcare i palchi di gente che un anno prima ascoltavamo nelle nostre camerette. E' stato però anche l'inizio del mio rapporto "difficile" con le dinamiche del music business, che non sono davvero mai stato in grado di comprendere e che hanno cambiato, penso definitivamente, il mio modo di pensare, comporre e produrre musica. Il fatto di dover per forza convivere con una parte del tuo "essere musicista" che niente ha a che fare con la musica ma piuttosto con le pubbliche relazioni e i rapporti sociali mi ha fatto perdere, un pò alla volta, molta della "poesia" di un tempo. Che non sono mai riuscito a recuperare.

Che effetto ti fece al tempo entrare nell'etichetta (la Mood Food) dei Whiskeytown? O meglio: hai avuto modo al tempo di respirare/ condividere un po' di quel crescente movimento alt-country che stava espandendosi sul suolo americano e oltre?

All'inizio c'era più che altro lo "stupore" di essere stati, in qualche modo, accettati. Anche se, visto dall'interno, quello che tu chiami "movimento" sembrava una cosa molto naturale, solamente delle bands che cercavano di farsi spazio nella scena, senza badare tanto alle etichette. Almeno, nelle poche volte in cui abbiamo suonato negli USA non ci sembrava di avere un "marchio" da portarci appresso, e lo stesso valeva per tutti i gruppi con cui abbiamo diviso i palchi. Si navigava tutti a vista, in quello che io (ancora) chiamo "underground rock", e per noi quella scena (vista da una cittadina di provincia italiana) era persino difficile da immaginare, figuriamoci farne parte. Nella realtà i Satellite Inn hanno solo lambito i margini del movimento, che nel 1999 (quando è uscito il primo disco) era già nella sua fase calante e necessitava, già allora, di idee e influenze nuove. Putroppo all'epoca non eravamo così esperti, troppo derivativi (anche se per me non è mai stata una colpa, semmai un vanto...) per proporre qualcosa di nostro che potesse avere un impatto in una scena musicale così enorme. E' dovuta passare tanta, tanta acqua sotto i ponti prima che io mi potessi riavvicinare a quei momenti... fortunatamente questo disco mi ha riportato un pò indietro nel tempo.

Poi ci sono stati i Gold Rust: li sembravi più interessato alla parte elettrica, feroce del tuo suono, molto rock'n'roll e molto live. Cosa mi puoi raccontare di questo progetto, ne riprenderai in mano il discorso e lo stile in qualche modo?

Assolutamente sì. I Gold Rust sono stati, per lungo tempo, la mia band "perfetta". Voglio dire: suonare rock'n'roll, al massimo del volume. Comporre la tua musica, ma poter proporre senza paura di essere tacciato di essere "coverista" anche quella di chi ti ha ispirato. Girare tutta l'Europa in un van, con l'unico problema di arrivare al club in tempo e di suonare il più bel concerto della tua vita. Conoscere gente nuova, locali nuovi, città mai viste prima, vivere da musicisti e con musicisti, e tutto questo farlo con i tuoi migliori amici. Senza l'assillo di coinvolgimenti discografici (che non fossero necessari per far prosperare la tua attività dal vivo), o legati al business, solo musica. Puoi immaginare qualcosa di più bello di questo? Ecco cos'erano i Gold Rust per me. Certo, tutto aveva un prezzo da pagare nelle proprie vite personali (è dura, ogni anno, far accettare alla propria moglie/compagna che le vacanze assieme sarebbero state "rimandate" per via di "quell'ultimo" tour in Olanda che sarebbe dovuto partire di lì a poco) che, dopo un certo numero di anni, ci ha presentato il conto con gli interessi, con abbandoni e riappacificamenti più o meno "amichevoli". Periodi di alti e bassi, ma che rivivrei in tutto e per tutto, fino all'ultima goccia di sudore o all'inevitabile scazzo. Riprendere il discorso non credo sia possibile, i Gold Rust erano un gruppo punk rock a tutti gli effetti come attitudine e tante, troppe cose sono cambiate. Io sono dell'idea che un certo tipo di musica va suonata solamente quando si è nello "stato di grazia" per poterlo fare, poi l'ispirazione finisce ed è meglio passare oltre. Per quello che riguarda lo stile, diciamo che nel prossimo futuro le mie canzoni torneranno sicuramente a parlare un linguaggio "elettrico"... quanto debitore ai Gold Rust non so, ma di certo tutto quello che abbiamo imparato in quegli anni si farà sentire.

Tornando al nuovo disco, Innerstate, il duetto presente con Willy Vlautin mi fornisce questo spunto: quanto ti senti vicino al suo songwriting, molto narrativo mi pare, e quanto invece il tuo si distingue forse per una maggiore introspezione?

Beh, diciamo che al momento, almeno per mio gusto personale, il songwriting di Willy Vlautin non ha eguali nel mondo della musica. Per me, senza esagerare, è il miglior autore moderno attualmente sulla piazza, tanto che spesso (cosa rara, nel mio caso) i suoi testi mi distolgono dall'ascolto della musica. Premesso questo, puoi quindi immaginare come non mi senta, come autore, nemmeno paragonabile a Willy. Sia per i temi trattati che come tipo di esposizione. La verità è che nel mio caso, non essendo madrelingua inglese, la mia "gamma" di soluzioni quando comincio a scrivere una canzone è giocoforza limitata a quello che so e che conosco, che potrà anche non essere poco ma non è sicuramente sufficiente per darmi una "rosa" di opzioni linguistiche che solo un madrelingua possiede. In passato ho provato ad avventurami nella scrittura "narrativa" per le mie canzoni (soprattutto coi Satellite Inn), ma non sono mai stato troppo soddisfatto del risultato. Lo stile "introspettivo" mi riesce decisamente meglio, anche perchè di solito nei miei pezzi parlo quasi sempre di me, delle mie emozioni. Spesso cerco di mediare tra ciò che mi "piacerebbe scrivere" (e per cui non ho, purtroppo, frecce sufficienti al mio arco) e ciò che, invece, è meglio per la canzone. Fermo restando l'assoluto rispetto dell'anima della canzone stessa, che io abbia o meno parole in grado di descriverla.

Più in generale hai di punti di riferimento per la tua scrittura, parlo soprattutto dei testi. Da dove nascono in principal modo?

Come ti accennavo, in generale preferisco trattare di argomenti che riguardano le mie sensazioni (anche se non necessariamente la mia persona). Posti dove sono stato, momenti che ho vissuto, che magari mi piace rappresentare nelle esperienze di una terza persona, oppure immaginare di vivere le esperienze di altri senza nemmeno averli mai conosciuti. Non mi considero una persona "triste" ma sono più propenso a vedere il bicchiere mezzo vuoto, e questo credo si noti anche nelle mie canzoni. Le atmosfere plumbee mi intrigano molto di più di quelle solari, non credo troverei mai le parole giuste per descrivere la felicità in una canzone. E se le trovassi, credo le terrei per me. Oltre a questo, un certo tipo di atmosfera nei testi influenza, secondo me, anche la scrittura della musica e viceversa per cui è una specie di loop... sad music for sad people

Da un punto di vista strettamente musicale trovo molto caratteristico, personale il sound di Innerstate, come ho sottolineato nella recensione. Ci sono stati comunque dischi, ascolti, artisti in particolare che ti hanno accompagnato nella maturazione di questo suono?

L'idea di base era, appunto, quella di creare un sound dove voce e chitarra avessero un ruolo predominante, con o senza il suono della band. Proprio per la natura delle canzoni, io e Dario abbiamo optato per un suono che potesse essere nuovo e vecchio allo stesso tempo, con una base principalmente acustica (perchè meglio si adattava ai pezzi). Per cui è stato registrato in maniera inusuale, strumenti acustici filtrati attraverso amplificatori vintage e microfoni panoramici (soprattutto nelle parti dei Richmond Fontaine) da tutte le parti. Dario ha anche suonato alcune delle sue Macchine Sonore (costruzioni di metallo elettrificate, compresa quella che nel disco sembra una slide ma nella realtà è un enorme pannello d'acciaio con otto corde da basso e due pickup a contatto...). Anche la mia voce è stata ripresa in modo diverso rispetto al solito: ho scelto di registrare al mattino, quando la voce deve ancora "rompersi" e certi toni (bassi, soprattutto) hanno più presenza, proprio per esaltare lo stile intimista delle composizioni e sperimentare, in qualche modo, quel cantato "colloquiale" in cui volevo provare a cimentarmi. Per fare questo, ho dovuto in qualche modo "resettare" la mia mente dalla musica troppo rumorosa (da tre-quattro anni a questa parte sono diventato un avido ascoltatore di garage-punk) e mi sono dedicato ad ascolti mirati, in particolare il primo Dylan. Ma anche Gillian Welch (che mi ha ispirato soprattutto per i suoni di chitarra, David Rawlings è un vero mostro), A.A. Bondy, lo stesso Jeff Tweedy (da solo, però...). In più, ho fatto una ricerca a ritroso nel tempo con gente del calibro di Mississipi John Hurt, Mance Lipscombe, il blues del Delta (che sto portando avanti tuttora). Avevo bisogno di trovare un'anima diversa per le canzoni.

Un'ultima curiosità: come è nata l'idea dell'artwork, con la scelta di certe foto, che a mio parere riflettono molto bene l'umore musicale del disco. C'era qualcosa in particolare che volevi esprimere o si tratta solo di suggestioni?

Guarda, credo che il momento esatto in cui è nata la scintilla di Innerstate sia stato in un punto indefinito tra la Francia e la Spagna, in quella parte dei Pirenei che precede l'arrivo nella zona di Barcellona, all'una di notte. Nel van ero l'unico sveglio (giustamente, visto che guidavo io...), i ragazzi dei Fontaine dormivano tutti. Ho visto quelle montagne immerse nel buio della notte e mi sono tornati in mente stati d'animo, sensazioni e immagini che avevo vissuto, 30 anni prima, in quello stesso tratto di strada tornando verso casa dopo una vacanza in Spagna con il cuore spezzato per un amore che all'epoca consideravo quello della mia vita. Le foto del booklet sono state quasi tutte scattate durante quel tour, principalmente in Spagna (ma anche a Vienna e a Zagabria) e, assieme ai testi, mi sono subito sembrate un ottimo supporto "visivo" delle sensazioni che quel viaggio mi ha dato. Per l'artwork, sono ormai affezionato a questo tipo di impostazione che riprende i vecchi libri della Adelphi, quelli che con una foto centrale cercavano di "dare un volto" al contenuto. Non lo definirei un marchio di fabbrica, ma mi piace pensare che tutti i miei dischi possano avere un filo conduttore, anche nell'aspetto grafico.

 





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