L'intervista
(a
cura di Fabio Cerbone) 
Se vuoi la domanda
più banale, ma in fondo la curiosità maggiore con cui aprire l'intervista: come
è nato l'incontro con i Richmond Fontaine, nome tra i più importanti del nuovo
folk americano? Come sei arrivato alla firma per la loro etichetta e soprattutto
alla collaborazione musicale? Il mio primo incontro
con i Richmond Fontaine risale ad oltre un decennio fa... ero già un loro fan
da qualche anno e nel 2001, durante il secondo tour americano dei Satellite Inn,
ho aperto un paio di loro concerti a Portland. Diciamo che c'è stata subito una
specie di chimica "a pelle", a livello musicale ma soprattutto personale, e siamo
diventati amici. Negli anni, la collaborazione artistica (sia coi Satellite Inn,
che da solo) si è mantenuta in modo costante, abbiamo diviso concerti, locali
e persino vacanze assieme. Sean Oldham (il batterista), che si occupa della gestione
della El Cortez, l'etichetta con cui distribuiscono il loro dischi negli USA,
è sempre stato entusiasta della mia musica, al punto che ha fatto uscire praticamente
tutti i progetti in cui sono stato coinvolto ultimamente, dai Gold Rust alla "meteora"
The Saint Four, e il collaborare con loro, nonostante si parli di una gestione
assolutamente "casalinga" del lavoro di un'etichetta, lontanissima dai canoni
standard, per me è naturale. Nel 2010, quando mi contattarono per aprire le date
della parte europea del loro tour, abbiamo posto le basi per una collaborazione
più diretta. In realtà già precedentemente avevamo registrato qualcosa con una
formazione allargata Satellite Inn-Richmond Fontaine, ma il tutto è poi finito
nel dimenticatoio (anche se ho un pezzo quasi finito, Naked Mole Rat, che
prima o poi mi deciderò a pubblicare...). Una sera, in un bar di Barcellona, dopo
l'ennesimo giro di birra e brandy, Sean mi ha proposto di registrare un disco
solista, con i Fontaine come backing band. All'inizio ero un pò scettico (non
avevo mai considerato di fare progetti solisti), poi ho cominciato a pensare che
poteva essere una buona idea. E più o meno da quel periodo in poi è nato Innerstate.
Mi chiedevo soprattutto cosa ci sia
di stimolante che ti ha spinto a cercare questi musicisti e questo suono: qual
era l'idea che inseguivi incidendo con loro? Quali soprattutto le maggiori differenze
che hai notato nell'approccio dei musicisti fra incisione e produzione...
In realtà, il progetto è stato il culmine di una ricerca, soprattutto interiore,
a proposito di quello che mi sarebbe piaciuto comunicare con un disco che partiva
soltanto da me. All'inizio, assieme a Dario Neri (mio "socio" nei Satellite
Inn, che ha registrato le parti "italiane" e praticamente prodotto tutte le canzoni)
c'era l'idea di fare qualcosa di completamente acustico. Poi, man mano che le
canzoni si sviluppavano, abbiamo optato per il suono "da band", principalmente
perchè l'isolamento voce-chitarra andava bene solo per alcune tematiche presenti
nel disco. Per cui il fatto di affidarmi a musicisti che conosco bene e che ammiro
come i Richmond Fontaine mi è sembrato naturale, più che andare alla ricerca di
un sound in particolare (anche se devo dire che Dario aveva già le idee chiare
su cosa voleva, molto prima di iniziare a registrare) con qualcuno che non conoscevo
bene. Il loro approccio alla registrazione è molto naturale, si fidano molto dell'idea
di base del produttore (in questo caso, io e Dario) e preferiscono le cose semplici,
cercando di far risaltare la canzone più degli strumentisti. Il grosso del lavoro,
però, l'ho fatto su di me... per comunicare in modo efficace il mood delle canzoni
avevo bisogno di un grosso cambiamento, e ho dovuto lavorarci molto. Ho smesso
di usare il plettro per suonare la chitarra e ho cominciato a prendere lezioni
di fingerpicking (su Youtube, lo ammetto...). In più, sono andato alla ricerca
di un suono più puro, più vicino al folk pre-war, anche per "asciugare" le canzoni.
E' stato un duro lavoro, che però ha pagato. Da due anni a questa parte sono su
questa strada e mi ci trovo a mio agio come mai prima.
Da un altro punto di vista, hai mai pensato al rischio di restare troppo identificato
con il suono stesso dei Richmond Fontaine, utilizzando i musicisti come backing
band nel disco? Come evolverà o sta già evolvendo il disco dal vivo con la tua
band? Ti dirò, è una delle critiche più frequenti che
viene mossa al disco. Certo, con i Richmond Fontaine dentro non c'è "il
pericolo" di non sapere cosa aspettarsi. In realtà il disco "doveva" suonare in
quel modo. E' stato concepito on the road con i Richmond Fontaine, mentre li vedevo
suonare ogni sera e mi sembra naturale che le atmosfere si siano evolute in qualcosa
del genere. In più, era da qualche tempo che non toccavo quelle "corde" della
mia musica e avevo voglia di darmi un'altra chance alle prese con quel tipo di
materiale. Credo comunque che sia venuta fuori molta della mia "anima", oltre
a quel tipo di sound, proprio per il carattere molto "personale" delle canzoni
e perchè, volente o nolente, le parti melodiche sono state suonate tutte da me,
che ho un tipo di approccio più "caciarone" alla composizione rispetto a Willy
e soci. Portare poi il disco dal vivo ha richiesto, ovviamente, una completa rivisitazione
sia del sound che dei pezzi (alcuni dei quali non si prestavano un granché per
un concerto mediamente corto, come piace a me). Per il tour abbiamo "ricostruito"
l'atmosfera da band assieme ad Antonio Perugini e Fabrizio Gramellini (già con
me sia nei primi Satellite Inn che nei Gold Rust) cercando di non snaturare troppo
la natura "intimista" del disco ma aggiungendo anche pezzi del vecchio repertorio
delle mie band precedenti, assieme anche a qualche pezzo nuovo. Il risultato è
stato un live veramente interessante, molto apprezzato ovunque lo abbiamo suonato,
con atmosfere acustiche (senza però la solita "patina" degli unplugged, che io
tendo ad evitare come la peste) e squarci elettrici miscelati a seconda del repertorio
e del momento di ogni singola canzone. Un acustico "sporco", come l'abbiamo poi
chiamato, una strada che ripercorreremo, ampliandola, anche in futuro.
Non è la prima volta che la tua musica guarda esplicitamente fuori dall'Italia,
che si identifica con un suono molto americano, legato alla provincia alt-country,
a certo indie folk. Penso ovviamente al tuo primo progetto, che hai già
citato in precedenza, i Satellite Inn. Cosa ricordi di quella esperienza? I
Satellite Inn sono stati, musicalmente e non, la mia vita. Tutto quello
che ho imparato sul mondo musicale lo devo ai Satellite Inn e a tutti coloro che
ne hanno fatto parte, direttamente o indirettamente. E' stato un periodo se vuoi
molto "pionieristico" per fare musica, dove si procedeva per tentativi e dove
non tutto ha funzionato per il verso giusto, anche (ma non solo) per l'inesperienza
dettata dal passaggio da bar-band di provincia a piccola realtà indipendente a
tutti gli effetti. Molti di noi non erano pronti per questo "salto" e probabilmente
non lo ero nemmeno io, ma è stato il periodo più bello della mia carriera musicale,
soprattutto all'inizio quando ci siamo trovati a calcare i palchi di gente che
un anno prima ascoltavamo nelle nostre camerette. E' stato però anche l'inizio
del mio rapporto "difficile" con le dinamiche del music business, che non sono
davvero mai stato in grado di comprendere e che hanno cambiato, penso definitivamente,
il mio modo di pensare, comporre e produrre musica. Il fatto di dover per forza
convivere con una parte del tuo "essere musicista" che niente ha a che fare con
la musica ma piuttosto con le pubbliche relazioni e i rapporti sociali mi ha fatto
perdere, un pò alla volta, molta della "poesia" di un tempo. Che non sono mai
riuscito a recuperare. Che effetto
ti fece al tempo entrare nell'etichetta (la Mood Food) dei Whiskeytown? O meglio:
hai avuto modo al tempo di respirare/ condividere un po' di quel crescente movimento
alt-country che stava espandendosi sul suolo americano e oltre? All'inizio
c'era più che altro lo "stupore" di essere stati, in qualche modo, accettati.
Anche se, visto dall'interno, quello che tu chiami "movimento" sembrava una cosa
molto naturale, solamente delle bands che cercavano di farsi spazio nella scena,
senza badare tanto alle etichette. Almeno, nelle poche volte in cui abbiamo suonato
negli USA non ci sembrava di avere un "marchio" da portarci appresso, e lo stesso
valeva per tutti i gruppi con cui abbiamo diviso i palchi. Si navigava tutti a
vista, in quello che io (ancora) chiamo "underground rock", e per noi quella scena
(vista da una cittadina di provincia italiana) era persino difficile da immaginare,
figuriamoci farne parte. Nella realtà i Satellite Inn hanno solo lambito i margini
del movimento, che nel 1999 (quando è uscito il primo disco) era già nella sua
fase calante e necessitava, già allora, di idee e influenze nuove. Putroppo all'epoca
non eravamo così esperti, troppo derivativi (anche se per me non è mai stata una
colpa, semmai un vanto...) per proporre qualcosa di nostro che potesse avere un
impatto in una scena musicale così enorme. E' dovuta passare tanta, tanta acqua
sotto i ponti prima che io mi potessi riavvicinare a quei momenti... fortunatamente
questo disco mi ha riportato un pò indietro nel tempo.
Poi ci sono stati i Gold Rust: li sembravi più interessato alla parte elettrica,
feroce del tuo suono, molto rock'n'roll e molto live. Cosa mi puoi raccontare
di questo progetto, ne riprenderai in mano il discorso e lo stile in qualche modo? Assolutamente
sì. I Gold Rust sono stati, per lungo tempo, la mia band "perfetta". Voglio
dire: suonare rock'n'roll, al massimo del volume. Comporre la tua musica, ma poter
proporre senza paura di essere tacciato di essere "coverista" anche quella di
chi ti ha ispirato. Girare tutta l'Europa in un van, con l'unico problema di arrivare
al club in tempo e di suonare il più bel concerto della tua vita. Conoscere gente
nuova, locali nuovi, città mai viste prima, vivere da musicisti e con musicisti,
e tutto questo farlo con i tuoi migliori amici. Senza l'assillo di coinvolgimenti
discografici (che non fossero necessari per far prosperare la tua attività dal
vivo), o legati al business, solo musica. Puoi immaginare qualcosa di più bello
di questo? Ecco cos'erano i Gold Rust per me. Certo, tutto aveva un prezzo da
pagare nelle proprie vite personali (è dura, ogni anno, far accettare alla propria
moglie/compagna che le vacanze assieme sarebbero state "rimandate" per via di
"quell'ultimo" tour in Olanda che sarebbe dovuto partire di lì a poco) che, dopo
un certo numero di anni, ci ha presentato il conto con gli interessi, con abbandoni
e riappacificamenti più o meno "amichevoli". Periodi di alti e bassi, ma che rivivrei
in tutto e per tutto, fino all'ultima goccia di sudore o all'inevitabile scazzo.
Riprendere il discorso non credo sia possibile, i Gold Rust erano un gruppo punk
rock a tutti gli effetti come attitudine e tante, troppe cose sono cambiate. Io
sono dell'idea che un certo tipo di musica va suonata solamente quando si è nello
"stato di grazia" per poterlo fare, poi l'ispirazione finisce ed è meglio passare
oltre. Per quello che riguarda lo stile, diciamo che nel prossimo futuro le mie
canzoni torneranno sicuramente a parlare un linguaggio "elettrico"... quanto debitore
ai Gold Rust non so, ma di certo tutto quello che abbiamo imparato in quegli anni
si farà sentire. Tornando al nuovo
disco, Innerstate, il duetto presente con Willy Vlautin mi fornisce questo
spunto: quanto ti senti vicino al suo songwriting, molto narrativo mi pare, e
quanto invece il tuo si distingue forse per una maggiore introspezione? Beh,
diciamo che al momento, almeno per mio gusto personale, il songwriting di Willy
Vlautin non ha eguali nel mondo della musica. Per me, senza esagerare, è il
miglior autore moderno attualmente sulla piazza, tanto che spesso (cosa rara,
nel mio caso) i suoi testi mi distolgono dall'ascolto della musica. Premesso questo,
puoi quindi immaginare come non mi senta, come autore, nemmeno paragonabile a
Willy. Sia per i temi trattati che come tipo di esposizione. La verità è che nel
mio caso, non essendo madrelingua inglese, la mia "gamma" di soluzioni quando
comincio a scrivere una canzone è giocoforza limitata a quello che so e che conosco,
che potrà anche non essere poco ma non è sicuramente sufficiente per darmi una
"rosa" di opzioni linguistiche che solo un madrelingua possiede. In passato ho
provato ad avventurami nella scrittura "narrativa" per le mie canzoni (soprattutto
coi Satellite Inn), ma non sono mai stato troppo soddisfatto del risultato. Lo
stile "introspettivo" mi riesce decisamente meglio, anche perchè di solito nei
miei pezzi parlo quasi sempre di me, delle mie emozioni. Spesso cerco di mediare
tra ciò che mi "piacerebbe scrivere" (e per cui non ho, purtroppo, frecce sufficienti
al mio arco) e ciò che, invece, è meglio per la canzone. Fermo restando l'assoluto
rispetto dell'anima della canzone stessa, che io abbia o meno parole in grado
di descriverla. Più in generale hai
di punti di riferimento per la tua scrittura, parlo soprattutto dei testi. Da
dove nascono in principal modo? Come ti accennavo,
in generale preferisco trattare di argomenti che riguardano le mie sensazioni
(anche se non necessariamente la mia persona). Posti dove sono stato, momenti
che ho vissuto, che magari mi piace rappresentare nelle esperienze di una terza
persona, oppure immaginare di vivere le esperienze di altri senza nemmeno averli
mai conosciuti. Non mi considero una persona "triste" ma sono più propenso a vedere
il bicchiere mezzo vuoto, e questo credo si noti anche nelle mie canzoni. Le atmosfere
plumbee mi intrigano molto di più di quelle solari, non credo troverei mai le
parole giuste per descrivere la felicità in una canzone. E se le trovassi, credo
le terrei per me. Oltre a questo, un certo tipo di atmosfera nei testi influenza,
secondo me, anche la scrittura della musica e viceversa per cui è una specie di
loop... sad music for sad people
Da un punto di
vista strettamente musicale trovo molto caratteristico, personale il sound di
Innerstate, come ho sottolineato nella recensione. Ci sono stati comunque
dischi, ascolti, artisti in particolare che ti hanno accompagnato nella maturazione
di questo suono?
L'idea di base era, appunto, quella di creare un
sound dove voce e chitarra avessero un ruolo predominante, con o senza il suono
della band. Proprio per la natura delle canzoni, io e Dario abbiamo optato per
un suono che potesse essere nuovo e vecchio allo stesso tempo, con una base principalmente
acustica (perchè meglio si adattava ai pezzi). Per cui è stato registrato in maniera
inusuale, strumenti acustici filtrati attraverso amplificatori vintage e microfoni
panoramici (soprattutto nelle parti dei Richmond Fontaine) da tutte le parti.
Dario ha anche suonato alcune delle sue Macchine Sonore (costruzioni di metallo
elettrificate, compresa quella che nel disco sembra una slide ma nella realtà
è un enorme pannello d'acciaio con otto corde da basso e due pickup a contatto...).
Anche la mia voce è stata ripresa in modo diverso rispetto al solito: ho scelto
di registrare al mattino, quando la voce deve ancora "rompersi" e certi toni (bassi,
soprattutto) hanno più presenza, proprio per esaltare lo stile intimista delle
composizioni e sperimentare, in qualche modo, quel cantato "colloquiale" in cui
volevo provare a cimentarmi. Per fare questo, ho dovuto in qualche modo "resettare"
la mia mente dalla musica troppo rumorosa (da tre-quattro anni a questa parte
sono diventato un avido ascoltatore di garage-punk) e mi sono dedicato ad ascolti
mirati, in particolare il primo Dylan. Ma anche Gillian Welch (che mi ha ispirato
soprattutto per i suoni di chitarra, David Rawlings è un vero mostro), A.A. Bondy,
lo stesso Jeff Tweedy (da solo, però...). In più, ho fatto una ricerca a ritroso
nel tempo con gente del calibro di Mississipi John Hurt, Mance Lipscombe, il blues
del Delta (che sto portando avanti tuttora). Avevo bisogno di trovare un'anima
diversa per le canzoni.
Un'ultima curiosità:
come è nata l'idea dell'artwork, con la scelta di certe foto, che a mio parere
riflettono molto bene l'umore musicale del disco. C'era qualcosa in particolare
che volevi esprimere o si tratta solo di suggestioni?
Guarda, credo
che il momento esatto in cui è nata la scintilla di Innerstate sia stato in un
punto indefinito tra la Francia e la Spagna, in quella parte dei Pirenei che precede
l'arrivo nella zona di Barcellona, all'una di notte. Nel van ero l'unico sveglio
(giustamente, visto che guidavo io...), i ragazzi dei Fontaine dormivano tutti.
Ho visto quelle montagne immerse nel buio della notte e mi sono tornati in mente
stati d'animo, sensazioni e immagini che avevo vissuto, 30 anni prima, in quello
stesso tratto di strada tornando verso casa dopo una vacanza in Spagna con il
cuore spezzato per un amore che all'epoca consideravo quello della mia vita. Le
foto del booklet sono state quasi tutte scattate durante quel tour, principalmente
in Spagna (ma anche a Vienna e a Zagabria) e, assieme ai testi, mi sono subito
sembrate un ottimo supporto "visivo" delle sensazioni che quel viaggio mi ha dato.
Per l'artwork, sono ormai affezionato a questo tipo di impostazione che riprende
i vecchi libri della Adelphi, quelli che con una foto centrale cercavano di "dare
un volto" al contenuto. Non lo definirei un marchio di fabbrica, ma mi piace pensare
che tutti i miei dischi possano avere un filo conduttore, anche nell'aspetto grafico.
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