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Chiari
Blues Festival
Il caldo rendeva lucido di sudore il viso di Matt Schoefield intento
a un assolo sul palco con la sua band in azione, ma il timore fondato
di un clima che ben si addice a un Blues festival non ha spaventato neppure
gli artisti che nella splendida cornice del Parco di Villa Mazzotti in
Chiari, il 7 luglio scorso hanno aperto le danze di una carrellata di
nomi nello spirito più vero di una giornata in compagnia ad ascoltare
buona musica, già dal primo pomeriggio coi The Scotch a fare gli onori
di casa, o i Superdownhome che abbiamo visto di recente innescare la miccia
di più blasonate esibizioni dal vivo, inflazionato low-fi figlio di Black
Keys e White Stripes e sempreverde per questo duo di cordofoni elettrificati
e batteria percussiva. Nelle loro mani, un disco di attuale pubblicazione
e un repertorio di vecchi blues come I’m Your Hoochie Coochie Man,
acerbamente super-amplificati. Ma la scena di cui sopra è già a un buon
punto di climax ascendente allorché on stage, col chitarrista inglese
in anticipo sui tempi della sua esibizione, dopo l’amico Jay Stollman,
come guest–star d’eccezione c’era la brillante Christine Tambakis, il
cui apporto vocale ha alzato di molto la caratura dello show, rendendone
fluido l’impasto sonoro dagli influssi tipici di una jam quasi southern,
condita di funky & soul. Col senno di poi ci rendiamo conto che la loro
Dr. Feelgood è stata uno dei vertici dello spettacolo e ci sovviene
che quando l’abbiamo visto, Matt Schoefield ha reso di più come session–man
che da solo, come nel presente live in cui la formula & friends scelta
dal nostro ha reso giustizia non solo alla band, ma alla categoria musicale
stessa di cui si fregia il festival in questione.
A cambiare i toni “riportando tutto a casa”, o quantomeno a una situazione
più contestualmente blues (e un po’ meno rock) sarà piuttosto Eric
Bibb che, bando ai guitar–heroes in rassegna nella stessa giornata
in questione, regalali il live act migliore del festival, quartetto black
& white elettroacustico con una spalla chitarristica come Staffan Astner
per un binomio sul fronte del palco che nulla ha da invidiare alla retroguardia,
dove la sezione ritmica col batterista Paul Robinson già per anni al fianco
di Nina Simone, si muove arguta e disinvolta. Insieme, sono loro i veri
mattatori delle scene e Bibb inanella uno via l’altro i suoi cavalli di
battaglia che, qualora lo si fosse già visto dal vivo, fanno la sua più
sentita scaletta di folk, blues e gospel, capace di un’intesa contestuale
non comune tra il pubblico e la scena. Al compianto Franco Mazzotti di
ADMR è dedicata per esempio la bellissima Needed Time, commovente
ed intensa; così come di scottante attualità rimane Refugee Moan,
a cappella come un grido dai campi sull’eterno tema delle migrazioni;
l’intesa tra lui ed Astner ci restituisce poi nei brani un po’ più vivaci
come Don’t Ever Let Nobody Drag Your Spirit Down, un’aggressiva
raffinatezza che ci ricorderebbe persino il Clapton dei tempi migliori.
E’ al cuore della giornata la session di Bibb, e meritato è l’applauso
in piedi del pubblico a salutarli.
Come Kenny Wayne Shepherd d’altra parte, con la band l’artista di punta accolto dalle luci della sera, nome di spicco scelto come principale ma che niente aggiunge a chi lo ha preceduto in questa rassegna, varia e godibile, intrecci rock’n’rollistici e elettrificati dalle sfaccettature delle dodici battute. Di fatto una band di hard–rock, che vede nelle pose da palcoscenico una cifra stilistica dell’esibizione, modulata dai solismi del chitarrista col cappello da cui il combo prende il nome e dai capelli lunghi e piede sulla spia del cantante Noah Hunt, voce ad hoc per l’occasione e sì emblematica del genere da risultare quasi anonima. Turn The Stone o la cavalcata di Long Time Running vorranno pur dire qualcosa in merito, anche se quel che ci rimane nella mente è la versione di I Can’t Hold Out che forse, è quanto di più azzeccato avremmo voluto vedere da band di tal fatta. Ma tant’è, la musica è anche intrattenimento e sicuramente la proposta di Chiari ci ha regalato comunque un bel momento a cui vorremmo abituarci nelle prossime stagioni, neanche fosse la risata lamentosa del wah–wah sui titoli di coda: è ancora Voodoo Child nei bis, immortale blues che stagione non ha.
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