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Joachim Cooder
Over That Road I’m Bound. The Songs of Uncle Dave Macon
[Nonesuch 2020]

di Pie Cantoni (16/10/2020)

La famiglia Cooder, si sa, è una piccola confraternita di musicologi ed etnomusicologi, appassionati sia di musica rootsy americana, sia di quanto arriva, sotto mille forme, da altre nazioni e continenti, in particolar modo dall’Africa occidentale. Inutile citare Buena Vista Social Club, Talking Timbuktu o A Meeting by the River, tutti dischi bellissimi ed essenziali. Ecco allora che Joachim Cooder, figlio del ben noto Ryland Peter Cooder (per i più Ry), facendo tesoro delle canzoni che il padre gli cantava da piccolo (difficile trovare un padre che possa competere con il suo nel cantare e suonare 'ninnananne'), rilegge le canzoni di uno dei progenitori della musica country americana, Uncle Dave Macon, nel disco uscito per la Nonesuch Records ad inizio ottobre.

Ma quella che Joachim ci propone non è affatto una rilettura pedissequa delle canzoni originali: data l’esperienza e le influenze che si respirano a casa Cooder, nel disco si utilizzano strumenti della tradizione africana come la mbira mischiati a strumenti più “classici” e nei dodici pezzi che compongono la raccolta, Cooder Junior si fa accompagnare da numerosi musicisti come il padre Ry, che suona banjo, chitarra, basso, Rayna Gellert (violino), Juliette Commagere (cori), Sam Gendel (basso), Glenn Patscha (piano e pump organ), Amir Yaghmai (yali tambur), Dan Gellert (banjo e violino), e Vieux Farka Touré, figlio di Ali Farka Touré, alla chitarra.

Nato nel 1870, Uncle Dave Macon è una figura seminale nell’evoluzione della musica americana. All’inizio del secolo scorso il musicista nativo del Tennessee era una star ed uno dei primi artisti a esibirsi regolarmente alla Grand Ole Opry. Il suo repertorio variava dai minstrel show al Vaudeville, da canzoni folk agli spirituals, attraversando la tradizione musicale tanto “bianca” quanto “nera”. E se l’inizio del disco con Over that Road I’m Bound to Go è gentile e delicata come una Harbour of Love, laddove l’influenza più forte è forse proprio il monumentale padre, più avanti nel disco le carte si mescolano. Amir Yaghmai e Yayli Tambu rendono più “africana” Backwater Blues, in una reinterpretazione che rimanda alla musica incantatrice dei griot del Mali, così come quando Vieux Farka Touré si presta alla chitarra in Oh Lovin’ Babe, che è una versione a metà tra il Chicago Blues di Little Walter e la musica del West Africa. Come Along Buddy ha un andamento quasi onirico, con il sound sospeso della mbira e Joachim che canta le strofe come fossero una filastrocca, ed è forse il brano più rappresentativo del disco, per passare quindi a brani più uptempo come Rabbit in the Pea Patch o Morning Blues, dove il cantato di Joachim assomiglia in maniera sorprendente a quello del padre.

Ry Cooder introdusse il figlio alla musica di Macon da piccolo e Joachim ha fatto lo stesso con la figlia, che lo ha aiutato a selezionare i brani inclusi in questo disco. Un progetto quindi che vede tre generazioni della famiglia Cooder coinvolte, nella speranza che la voglia di riscoprire e reinterpretare la tradizione, mescolandola a mille altri generi, non si fermi mai. Come si dice, blood is thicker than water.


    

 

L'intervista con Joachim Cooder

Nove ore di distanza separano l’Italia dalla California, mentre qui la giornata termina, là inizia, in mezzo c’è un oceano e una pandemia a dilatare a dismisura le distanze. L’unica cosa che in questi mesi ci ha fatto sentire uniti è la musica. Infatti, già dal primo ascolto di Over that Road I’m Bound abbiamo avvertito la presenza di Joachim Cooder e l’intimità nella quale il disco è stato registrato. Il calore “domestico” che ha fatto nascere e crescere questo disco. Mettersi in contatto con Joachim per parlare del disco è stata una conseguenza naturale e incredibilmente semplice.

- a cura di Pie Cantoni -


Joachim, innanzitutto volevo dirti che il tuo disco è fantastico. Mi è piaciuto veramente tanto.

Grazie Pie.

E' molto interessante la tua scelta di registrare le canzoni di Uncle Dave Macon, che non è un personaggio molto conosciuto, almeno qui in Italia, ma ho letto che per te ha una grande importanza, sia dal punto di vista della tua famiglia, sia da quello della tua eredità musicale.

Quand’ero giovane sentivo mio padre suonare il banjo e lo sentivo suonare varie canzoni. Ero molto giovane, circa 5 anni, e a casa mio padre suonava qualsiasi cosa gli venisse in mente. Ricordo alcune canzoni che amavo particolarmente e poi scoprii che erano canzoni di Uncle Dave Macon che lui (Ry Cooder, ndr) imparò a sua volta da Pete Seeger, che era un grande suonatore di banjo e un fan di Uncle Dave. Poi sai, le cose cambiano, lui fu preso in altri progetti, io sono cresciuto, e quando, non molto tempo fa, tornai a visitare i miei genitori con le mie figlie, lo sentii suonare ancora una di quelle canzoni. Chiesi “Che canzone è?”, perché volevo veramente sapere. E lui mi disse che era Morning Blues di Uncle Dave Macon. E allora ebbi il desiderio di prendere la mbira, che è lo strumento elettrico con cui suono tutte queste canzoni, e cominciai a suonare con lui e cominciai a impararla. Sembrava così perfetto sul mio strumento. Allora volli imparare a suonarne altre alle mie figlie a casa. Dopo aver imparato a suonare Morning Blues cominciai a studiarne altre e ho comprato un boxset di Uncle David pubblicato da una casa editrice tedesca (Bear Family Records, ndr). Mia figlia divenne ossessionata da quella raccolta e ogni giorno si ascoltavano quelle canzoni. Andavamo in cucina, ci sedevamo al tavolo e non iniziavamo nemmeno la colazione se non premevo play sul lettore. E così iniziai ad imparare le canzoni che le piacevano di più, perché non mi permetteva di ascoltarne altre. Imparai i brani ma senza sapere molto di Uncle David fino a qualche tempo dopo, perché c’era solo la musica. Ma poi scoprimmo che Uncle David era un personaggio divertente e a mia figlia piacevano alcune frasi in particolare delle canzoni, l’inglese che utilizzava era diverso rispetto a quello che usiamo oggi. C’erano frasi buffe e lei si domandava cosa volessero dire e così via. Così è come il progetto ha avuto inizio.

Citavi il fatto di suonare queste canzoni a tua figlia. Da padre, cosa provi quando suoni per tua figlia?

Mi piace molto perché una delle cose che facevo mentre imparavo le canzoni era di cambiare il testo. Ho cominciato a inserire storie del suo libro preferito, ma in maniera da sembrare parte della canzone. Cambiavo un po’ il testo e magari un verso cambiava da “quando io andavo sul treno” a “quando noi andavamo su un treno a vapore nel North California” parlando di lei, e quindi lo rendeva divertente ed eccitante perché diventava una storia personale e lei ne era colpita perché sapeva che solo noi due sapevamo di questo specie di segreto, soprattutto quando suonavo le canzoni live. Le dava la titolarità, come se quello fosse il “suo” disco.

E’ bello vedere il passaggio da tuo padre a te e da te a tua figlia e chissà cos’altro ancora tra venti o trent’anni. Ti faccio un’altra domanda. La mbira è lo strumento centrale di questo disco. E’ un bellissimo strumento ed è anche collegato alla musica africana. Com’è stato mescolare musica americana e musica africana con il fantastico risultato finale che rappresentano il tuo disco e la tua personale reinterpretazione delle canzoni. E’ stata una cosa naturale affiancare Uncle Macon alla musica africana?

E’ naturale solo nel fatto che la mbira è lo strumento che mi piace suonare, è la mia cosa suonare la mbira. C’è qualcosa nelle canzoni di Uncle Dave Macon che penso funzioni meravigliosamente con questo strumento. Lo rende un interessante sostituto del banjo. Quando lo suono rallento un po’ i pezzi e li rendo più meditativi come in una sorta di trance. E c’è qualcosa in queste canzoni che, se le riporti a quel feeling, più intimo e dando spazio alla musica e alle parole, si adattano molto bene. Non è stata una specie di progetto studiato di musica americana e africana, erano proprio le canzoni a suonare bene con la mbira. Qualsiasi cosa faccio parte con la mbira e quello da la rotta del modo e del feel per tutto quello che viene dopo.

Una piccola nota personale. Io viaggio spesso e quando arrivo in un posto nuovo e voglio cercare tranquillità e riconnettermi con la mia casa o la mia famiglia, che magari sono a migliaia di chilometri di distanza, ascolto A Meeting by the River. Mi fa sentire in un’altra dimensione. E questo è lo stesso feeling che ho provato ascoltando Over That Road I’m Bound.

Grazie. Così è come mi sono sentito io registrandolo e quindi è fantastico che anche tu abbia provato quelle sensazioni.

Quanto delle tue passate esperienze c’è in questo disco?

Penso che ci sia tutto. Sin da piccolo ho viaggiato con mio padre. Mi ricordo quando andai ad Atlanta, Georgia, per l’Atlanta Rhytm and Blues Festival e ai tempi avevo circa dieci anni, questo era prima di internet prima che tutti sapessero tutto. E ricordo gli artisti che salivano sul palco a fare il loro set e io non avevo mai visto niente di simile. Tutti suonavano al contrario, sottosopra, era molto blues, era veramente originale, venivano da qualche piccolo paese nel sud. Non ricordo nemmeno chi fossero, ormai. Oppure ricordo quando andai a registrare la batteria per un brano di Johnny Cash nella colonna sonora di Dead Man Walking (In Your Mind) ed è stata un’esperienza molto formativa per la mia giovane età essere attorniato da certa gente. E vederli, anche solo stare lì e sentire come parlavano, com’erano divertenti, mi ha sempre fatto molta impressione. Questa esposizione a gente molto più adulta, mentre io ero molto giovane, mi ha influenzato e penso che questo rimarrà sempre con me e spero che si senta anche in questo disco.

Sicuramente. E nel corso degli anni hai avuto anche l’opportunità di suonare con altri grandi musicisti come John Lee Hooker, Ali Farka Touré. Com’è stato suonare con loro?

Come batterista e percussionista fai da accompagnamento e devi supportare la musica e questo mi ha permesso di inserirmi in ogni situazione e fare da spalla per quello che stava accadendo. Ascoltare, penso sia uno degli insegnamenti più grandi di mio padre. Arrivi in una situazione, ascolti prima di tutto, non è che puoi arrivare e avere un atteggiamento del tipo “Sono il grande Joachim Cooder e vi faccio vedere cosa so fare”. Non vai da nessuna parte così, devi ascoltare, capire cosa succede attorno a te, vedere cosa puoi fare, cosa puoi portare. Se hai questo atteggiamento nella musica ti aiuta ad andare avanti perché sei da supporto alla musica.

Uncle Dave Macon  

Quanto ci è voluto per registrare Over that Road I’m Bound?

Ci è voluto circa un anno e mezzo o due. Non è stata una cosa continua. Essendo padre di due piccoli bambini non puoi chiuderti in uno studio per sei mesi, prenderti i tuoi spazi, stare in piedi tutta notte…. Non funziona più così. Devi essere molto concentrato, tipo dalle 10 del mattino alle 4 del pomeriggio per una settimana, cercando di registrare il più possibile. Poi niente fino a qualche mese dopo dove registri altre canzoni. É stato un processo lento ma per via della vita e di come vanno le cose.

Ho visto tre video estratti dal tuo disco: Come Along Buddy, Over that Road I’m Bound e Heartaching Blues, registrati live. Tre bellissimi video registrati in uno studio con un’atmosfera trascendentale. Cosa ti ricordi di quelle registrazioni?

Quelle erano registrate live. Tutti nello studio. Reina (violinista) era a Nashville ma aveva un solo giorno prima di partire per un festival in Australia. Quindi avevamo solo un giorno per registrare. Ogni volta che ci troviamo in una stanza insieme, le cose sono diverse. É stata una bella fotografia di quel giorno. C’era anche mia moglie Juliette, che suonava un vecchio tamburo. É stata una bella testimonianza. E poi, subito dopo, c’è stata la pandemia e poi non siamo stati più in grado di ritrovarci nella stessa stanza a suonare, per cui mi sento molto fortunato per quella session.

E ora, in questo particolare momento che stiamo vivendo, cosa pensi di fare per promuovere il disco? Non puoi ad esempio venire in Europa per un tour.

E' un gran peccato. Spero di avere l’opportunità di venire presto. Al momento quello che posso fare è registrare video e metterli online. Che è ok in generale, ma se è l’unica cosa che puoi fare è un po’ deprimente.

Comunque non appena verrai in Italia, sarò in prima fila.

L’Italia è al primo posto della mia lista fra i posti in cui voglio andare a suonare. Spero che tutto si riapra presto e che ci sia la possibilità di venire.

E adesso, hai nuovi progetti?

Adesso l’unica cosa che posso fare è cercare di promuovere il disco che è appena uscito. Nel mio modo limitato, da casa, devo promuoverlo, parlarne alle persone e suonare. Ho anche delle registrazioni live senza audience in Los Angeles. Ho iniziato anche a lavorare su nuova musica, finita la registrazione di Uncle David, ma poi, con tutta la famiglia in casa, non è semplice concentrarsi e trovare i propri spazi. Comunque ad un certo punto riprenderò a lavorare su nuovi brani. Anche se non so quando.

Gli ultimi due dischi di tuo padre sui quali hai suonato erano molto politici e commentavano la situazione sociale degli USA. Questo tuo disco ha degli elementi di politica e di analisi sociale?

L’ultima canzone di questo disco racconta una storia. Ho cambiato il testo per renderla più attuale. Racconta la storia di migranti che dal Messico arrivano in America su un treno merci. Un terribile viaggio ma che accomuna un po’ tutte le storie di migrazione in tutto il mondo. Non ho raccontato il lato politico, ma il lato umano della storia. C’è la storia del ragazzo che cerca di raggiungere la madre che è un’immigrata clandestina in America e il figlio, lasciato all’età di otto anni, a dodici cerca di raggiungerla ma non ce la fa perché muore nel tragitto. Ho lasciato il lato umano e la storia ma c’è della politica, anche se in secondo piano, perché non volevo essere troppo specifico o troppo diretto, per lasciare all’ascoltatore la possibilità di interpretare. Questa è l’unica canzone dove c’è un accenno di politica mentre per il resto è molto libero.

Qualche anno fa ho intervistato Eric Bibb. Quando lo incontrai parlammo del suo ultimo disco Migration Blues e mi disse una cosa che mi colpì molto: se senti i commenti in tv, se ascolti i politici è sempre tutto molto negativo, tutti contro tutti, ma i musicisti hanno l’opportunità di vedere il lato positivo delle persone. I musicisti sanno e capiscono le connessioni che ci legano tutti, da un lato all’altro dell’oceano, attraverso la musica. E penso che sia un bellissimo pensiero da parte sua che volevo lasciarti perché, quando ho la fortuna di parlare con persone come lui, come te, c’è qualcosa di più grande che ci unisce tutti attraverso la musica. Grazie Joachim. Ti auguro il meglio per il tuo disco e spero di vederci in Italia o in LA.

Grazie a te Pie, e sicuramente avremo modo di tenerci in contatto.

   



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