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Kind
of Cool - A cura di Marco Denti -
Una frase dello stesso Dylan
ripescata da Mixing Up The Medicine dice che “era il suono delle
strade. Lo è ancora” e giustifica quello che A Complete Unknown
mostra persino con un certo ordine, fin dai primissimi fotogrammi che
non immortalano soltanto Dylan, ma la leggenda del nuovo ragazzo che arriva
in città (e la città è New York) che vale per tutti quelli che partono
all’avventura con una chitarra in mano. Il film nasce da un libro di Elijah
Wald, Dylan Goes Electric! che nel sottotitolo originale,
"Newport, Seeger, Dylan, and the Night that Split the Sixties",
contiene già lo scenario che poi è stato ricalibrato sullo schermo. Ha
un conto in sospeso con Inside Llewyn Davis, ispirato ancora da
un altro libro di Wald, quello su Dave Van Ronk. È la New York dei cafè
e delle taverne, del movimento dei diritti civili e contro la guerra.
C’è, inevitabile, una componente di nostalgia per un momento irripetibile
di cui, volente o nolente, Dylan è stato l’epitome, il simbolo. Come diceva
Peter Yarrow: “Non si trattava di adottare uno stile. Si tratta di
abbracciare un’idea più intima e giusta”. Il conflitto, almeno questa volta, non è stato rimosso. Per quanto ammorbidito e sfumato nei contorni hollywoodiani, Dylan in A Complete Unknown appare per quello che è: una forza magnetica e centrifuga che attira personaggi d’ogni genere e specie ed è bello rivedere Bobby Neuwirth, Michael Bloomfield, Albert Grossman o Al Kooper. Le figure che ritornano di più sono quelle di Pete Seeger, dovuta anche alla bravura e allo stile di Edward Norton, e di Woody Guthrie. Dice Barry Ollman che Woody Guthrie e Bob Dylan “sono instancabili e motivati. Il fatto che si siano incontrati e siano diventati amici, alla fine del viaggio di Woody Guthrie e all’inizio di quello di Bob, mi affascina tanto la storia delle origini dei Beatles. Come sono potute accadere queste cose?”. Interessante. Dentro le battaglie, gli scontri, i successi e il sentirsi sempre fuori posto, Dylan resta cool e questo lo mostrano molto bene entrambi, il libro e il film. Per come tiene la sigaretta, per come risponde, per come viene fotografato (persino da Richard Avedon uno che di solito è più abituato a immortalare gli abiti che le persone), per quello sguardo interrogativo e sprezzante, forse soltanto timido. Sostiene Greil Marcus che in quel momento “Dylan non era al bivio, ma si percepisce che aveva con sé una mappa e che lo stava cercando”. Come è noto succederà a Newport a cui A Complete Unknown concede l’onore delle armi con Johnny Cash. In realtà l’incontro avvenne nel 1964 e questo lo garantisce Mixing Up The Medicine e qualche licenza è giusto concederla perché un film non è la realtà e i punti di vista possono essere tanti e diversi. È una storia che ha i suoi opposti: Dylan e Pete Seeger, Dylan e Joan Baez, elettrico e acustico, folk e rock’n’roll, l’establishment e il ribollire delle giovani anime ribelli.
A Complete Unknown lavora per riduzione e non si poteva aspettare diversamente da Hollywood. Mixing Up The Medicine procede per estensione. Entrambi prendono il titolo da frasi di canzoni, e non è un caso. Verso la fine di A Complete Unknown, Dylan chiede di non fotografare la sua scrivania ingombra di taccuini, appunti, note ed è invece quello che fa in gran parte Mixing Up The Medicine. Si addentra nei processi creativi dylaniani (il folksinger, il musicista, l’artista visivo, lo scrittore) come se avessimo la possibilità di guardarlo lavorare dal buco della serratura. Coincidenze, connessioni e nodi: è questo quello che fa Dylan. Tessere una rete di giorno e disfarla di notte, muovendosi in continuazione, da un angolo all’altro dell’America. Il leitmotiv è l’invenzione incessante del personaggio: le camicie, le giacche, gli occhiali scuri, le chitarre, la motocicletta, le bizzarrie e i colpi di testa, i “sogni fatti di ferro e d’acciaio”, tutto compreso. È Dylan o non è Dylan? Questa domanda è stata riproposta a ogni occasione e il gioco delle maschere è andato avanti per un bel po’. Per nascondersi, per proteggersi, per affidare a un altro volto le incombenze del crescere in pubblico. Lo stesso Bob Dylan spiegava: “Per rimanere legato a qualcosa, dopo che l’hai creato, devi percorrere un cammino molto instabile... Può reggere, come può cedere”. Ditelo anche a Jack Fate, Jack Frost, Lucky Wilbury, Blind Boy Grunt e (forse) Handy Dandy: Dylan crea un’aura, un bisogno. Non chiede nulla e nel film lo si vede. Lui si presenta e basta. Chiede soltanto i musicisti (blues ed elettrici) e lì scoppia il casino. Non sarebbe stata l’ultima volta. Omissis, nel libro, l’imbarazzante apparizione al Live Aid con Ron Wood e Keith Richards, e qualche altro episodio contraddittorio, ma come dice Jeff Slate: “la strada verso Dylan” resta tortuosa, Mixing Up The Medicine, pescando nel suo work in progress, ha voluto offrire soltanto un po’ di segnaletica.
In Mixing Up The Medicine
è molto perentorio Robert Caro, citato da Terry Gans, quando lo incita
ad affrontare l’archivio: “Esamina ogni cazzo di pagina”. Sì, proprio
così. Un dettaglio può fare la differenza e questo lo sa molto bene anche
Michael Ondaatje quando dice: “Nello sviluppo di una canzone o di una
poesia, tutto è possibile, qualsiasi cosa”. Secondo Douglas Brinkley
è andata (e andrà) così: “Come Dylan ha continuato a reinventare il
proprio repertorio, sin da quando ha registrato l’inedito Song to Woody
nel 1962, i musicisti del futuro reinterpreteranno per sempre i suoi standard
senza tempo. Dylan ha trasformato il panorama della popular music americana,
fondendo la sua visione letteraria con la tradizione folk, con il blues,
il gospel e l’idioma rock”.
A Complete Unknown
parte da qui, si sofferma sull’aspetto del songwriting e ha il pregio
di rimettere le canzoni negli snodi centrali della storia. A parte quelle
del songbook dylaniano, ce ne sono parecchie disseminate in un modo o
nell’altro e ricordiamo almeno The House of The Rising Sun perché,
di fatto, nella versione da Joan Baez comincia la storia e Wimoweh
(cantata da Pete Seeger) che celebra tutto un modo di esprimersi e di
comunicare attraverso le canzoni. Il ritornello di Wimoweh, che
ha una bella storia (raccontata a suo tempo da Ryan Malan in un articolo
di rara bellezza), appare innocuo rispetto a quello che da lì in poi sortirà
Dylan, che un tempo ha spiegato così come funziona l’incubazione delle
(sue) canzoni: “Sto ascoltando un brano nella mia testa. A un certo
punto, alcune delle parole cambiano e inizio a scrivere una canzone”.
Trattandosi di rock’n’roll, di questo stiamo parlando, è più che lecito interpellare il parere di un batterista e Jim Keltner ha detto: “È Dylan, serve aggiungere qualcosa?” Forse, sì. Un suggerimento arriva dallo stesso Dylan che nelle note inedite scritte a margine a Dirge diceva: “Siamo fortunati ad avere quello che abbiamo, ma le cose non dette sono sempre le migliori”. In questo caso, Mixing Up The Medicine è un piatto di sicuro più ampio e colorito rispetto a A Complete Unknown perché è come dice Richard Hell: “Le cose che lo rendono Bob Dylan in realtà sono molte, così come sono tante le cose che definiscono ciascuno di noi; ma lui si distingue nettamente dagli altri perché cade sempre in piedi. I suoi dubbi sono delle semplici occasioni per cantare”. Semplici? Parliamone. Dobbiamo scegliere una canzone, per cominciare? La poetessa C. D. Wright, citata da Michael Ondaatje, dice che “Blind Willie McTell dovrebbe essere l’inno nazionale d’America”. Bell’idea. L’altra certezza è che Dylan è diventato sexy con la chitarra elettrica e con quella, più che il disturbo generato dal rumore, ha solleticato qualche pulsione erotica incontrollabile, più subdola e intrigante dello stesso Elvis. Le forme spesso ingannano, ma quelle della Strato sono lì da vedere.
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