Becoming
Led Zeppelin
di Bernard MacMahon
[Sony Pictures
Classics, 2025]
“E fu così che diventammo la band più grande del mondo”: breve
sintesi di un documentario, portato sullo schermo dal regista Bernard
MacMahon, co-sceneggiato da Alison McGoutry. Becoming Led Zeppelin
è un eccellente docu-film, una lineare e affascinante biografia non definitiva
di una band la cui storia inizia di fatto nel 1969 con un attacco micidiale,
quello di Good Times Bad Times. Tale incipit duro come l’acciaio
è tuttavia il frutto di un rigoroso percorso, di un “prima” fatto di gavetta
e dedizione assoluta.
Lo scopo del film, presentato fuori concorso nel 2021 alla settantottesima
Mostra di Venezia, è proprio quello di illustrare quel prologo, di indagare
un periodo per definizione più oscuro e ingrato: i fasti arriveranno poi,
con gli inconfondibili riff che hanno incendiato gli anni Settanta, eccessi
compresi. La vicenda parte dagli anni di un’Inghilterra post-bellica in
bianco e nero, tra fumi, macerie e dischi di boogie portati dai marinai;
indi la generale passione per blues e rock’n’roll e, grazie a personaggi
come Lonnie Donegan, per lo skiffle, sorta di folk blues suonato con chitarre
e bull fiddle. Tante future rock star esordiscono con questo genere e
tra queste Jimmy Page; è istruttivo vederlo con la sua band nel 1957,
per il programma televisivo All Your Own.
Mentre scorre incessante la musica, il film racconta gli Zeppelin prima
degli Zeppelin, con le immagini che rimandano a momenti di vita personale
e collettiva. Jimmy, Robert Plant, John Paul Jones, narrando sé stessi,
narrano lo spirito del tempo, raggiunti dalla voce fuori campo di John
Bonham (l’intervista è del 1971). Tante le cose, note e meno note; c’è
spazio per qualche ciliegina, come una Dazed And Confused in veste
originale (1967), eseguita dagli Yardbirds. È bello, in questa incursione,
rivedere Sonny Boy Williamson mentre soffia il suo blues nell’armonica,
fanno effetto le mosse di Little Richard e James Brown; è lampante, nonché
dichiarato, il peso avuto da questi sulla formazione del futuro esercito
rock, nostri eroi compresi: tutti vogliono fare musica.
Così, mentre John Bonham milita nei Senators (piccolo successo nel ’64)
e si ritrova con l’amico Robert nei Band Of Joy, Jimmy (dal ’66 con gli
Yardbirds) e John Paul sono tra i fortunati che riescono ad entrare ufficialmente
nel “music biz”, seppur dalla porta di servizio e in qualità di session
men in grado di suonare di tutto, dal blues alle colonne sonore. Si apprende
per esempio che i due partecipano alla registrazione della “title -song”
di 007 - Missione Goldfinger, mentre il solo Jones arrangia
To Sir With Love per Lulu (l’omonimo film del ’67). “Mai sbagliare,
altrimenti la prossima volta non ti avrebbero riconvocato”, riferiscono.
Ma quel contesto diviene presto un cottimo di lusso da cui bisogna liberarsi
in fretta, per poter dare sfogo a tutta la creatività del mondo. Da lì
un magico 1969, un contratto con Atlantic, due album e un grande seguito
negli Usa, grazie a un memorabile tour; per la patria bisogna attendere.
Tutto documentato con dovizia di particolari.
Come suggerisce il titolo, la deadline di Becoming Led Zeppelin
è giocoforza rigida, il 1970, all’indomani di Led Zeppelin II.
Il documentario, uno dei migliori di questi ultimi anni, ha il pregio
di soffermarsi esclusivamente sull’aspetto musicale, evitando desueti
report dal versante privato: dei bagordi (e dei plagi) del rock sappiamo
tutto. È inoltre fluido e accessibile, fortunatamente non solo per chi
conosce a memoria i dischi del gruppo o la biografia di Bob Spitz. Il
resto della vicenda è universalmente noto, ci sarà un’altra deadline,
stavolta tassativa: quel 1980 che con la scomparsa di “Bonzo” Bonham mette
fine a tutto. Il poi, Live Aid, riunioni o quel che sia, è solo un’appendice.