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il 02/03/2007 | |
Jesse
Malin L'uscita di Glitter In The
Gutter, terzo album da solista di Jesse Malin in seguito al raffreddamento
degli ardori punk dei suoi D Generation, era attesa un po' da tutti col fucile
spianato. Da un lato dai detrattori, che chiedevano a gran voce una dimostrazione
pratica di originalità e singolarità dopo averlo accusato di limitarsi a speculare
sulla celebrità di alcuni compagni di percorso (primo tra tutti Ryan Adams, che
ne aveva prodotto l'esordio e anche stavolta non manca di farsi sentire in lungo
e in largo), e dall'altro anche dagli estimatori della prima ora, desiderosi di
ratificare in via definitiva l'emulsione di un talento in grado di confermare
le belle parole spese per i precedenti The
Fine Art Of Self Destruction e The
Heat. A pochi giorni dalla pubblicazione del nuovo album, l'uditorio
di Malin pare essersi spaccato in profondità. L'accusa che a Glitter In The Gutter
viene rivolta con maggiore frequenza è quella di essere un album prigioniero della
propria ambizione, incatenato a un'innegabile propensione del suo artefice all'enfasi,
all'iperbole, all'eccesso forzato: conterebbe troppe chitarre, troppi ospiti,
troppi rimandi a un paradigma musicale - quello del rock urbano newyorchese degli
anni '70 - sovente dato per morto e sepolto, troppe accentuazioni citazioniste,
troppe strizzatine d'occhio a un format rockettaro di facile radiofonia per definire
il quale i più cattivi tra i commentatori sono già ricorsi agli immancabili paragoni
con Bon Jovi et similia. Il bello è che è tutto vero, anzi verissimo, e che nonostante
questo Glitter In The Gutter funziona alla grande, e lo fa proprio
spargendo senza misura coriandoli sboccati di rock settantesco, filamenti stellati
di punk-glam che s'inchioda nel cervello al primo ascolto (glitter), grazie anche
al basso gommoso di Sam Yaffa - il favoloso membro di Hanoi Rocks, Johnny
Thunders Band, Demolition 23, Mad Juana e della più recente incarnazione delle
New York Dolls - e sbattendo con sicumera nel piatto dell'ascoltatore le cicatrici
pulsanti di un'umanità ferita dalla solitudine ancorché capace di scovare un briciolo
di poesia o uno straccio di redenzione in una livida serenata metropolitana (gutter),
che puzza di Springsteen a un miglio di distanza. Le tredici canzoni del disco,
compresa la Bastards Of Young dei Replacements qui riconvertita in uno
struggente soliloquio per pianoforte (conservandone però la melodia originaria),
rappresentano altrettante, brucianti istantanee di un reticolo di strade, luci,
sidewalks e luoghi dell'immaginario made in NY che ha già ispirato, tra gli altri,
Elliott Murphy o David Johansen, e che torna oggi a essere descritto con la grinta
e la romantica sfacciataggine dei tempi belli. Tanto di cappello di fronte al
contributo del citato Adams, del leader dei Queens Of The Stone Age Josh Homme
(sei corde torrenziale in Tomorrow Tonight), della voce arrochita di
Jakob Dylan (invero un po' sacrificato nel contesto di una Black Haired
Girl cui basta e avanza il proprio ossessivo pestaggio ritmico), del Foo Fighter
Chris Shiflett (spericolato architetto del rifferama punk di Prisoners
Of Paradise) o dello stesso Bruce Springsteen (seconda voce nella solenne
Broken Radio). Ad ogni modo, per intenderci, gli onori del caso vanno tutti
tributati a Jesse Malin, per aver recuperato una dimensione epica del racconto
rock e per essersi calato anima e corpo in un affresco viscerale di personaggi
intenzionati a "salvarsi la vita suonando rock'n'roll" (per esempio la protagonista
dell'incalzante Lucinda), senza preoccuparsi troppo delle buone maniere o delle
prevedibili accuse di ridondanza. Canzoni come Love Streams o Don't
Let Them Take You Down, per non dire di un piccolo capolavoro quale la conclusiva
Aftermath, che traduce in sublime chiave folk-rock la tagliente aneddotica
cittadina di Lou Reed citandone tra le righe l'indimenticabile Sweet Jane, racchiudono
così tanta fiducia nella forza del rock'n'roll e così tanto impeto da convincere
ancora una volta che valga la pena essere nati anche soltanto per correre. E'
rock americano nella sua incarnazione migliore. Prolisso? Forse. Esagerato? Quasi
certamente. Ma è musica che guarisce ogni debolezza, e ripaga qualsiasi disincanto. |