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soul happiness di
Fabio Cerbone (25/02/2016)
La richiesta pare sia arrivata dalla stessa Mavis Staples: il desiderio
era di confrontarsi con un repertorio più gioioso, che rimettesse in discussione
le sue recenti scelte stilistiche (i due celebrati lavori con Jeff Tweedy come
produttore). Come se, dopo la fragilità, quei toni scarni e in buona parte acustici
dello splendido One
True Vine, le occorresse uno spazio per la luce, una celebrazione,
in fondo sacrosanta, di una carriera avventurosa e lunghissima, che ha coinciso
con una fetta importante della storia sociale americana degli ultimi sessant'anni.
Non possiamo darle torto e seppure Livin' on a High Note
non possieda il fascino spirituale (e anche dolente) del suo predecessore, nel
misurarsi ancora una volta con del materiale "moderno", scritto appositamente
per lei da piccoli e grandi nomi del panorama rock indipendente, conferma Mavis
Staples quale interprete (lei e forse soltanto la collega Bettye Lavette a farle
concorrenza) duttile, che dall'educazione gospel soul non si distacca in fatto
di stile, ma lo vuole mettere alla prova, o meglio ancora piegarlo, alla sua voce.
Accade con il r&b pulsante di Take Us Back,
scritto da Benjamin Booker, apertura che innalza orgogliosa il racconto della
storia personale di Mavis, o l'instant classic Love and
Trust, firmata da Ben Harper. Ed è incredibile constatare come quella
voce in studio non abbia perso quasi nulla della sua elasticità, magari oggi più
scaltra nel dominare le canzoni (nelle ballad come If It's a Light e Dedicated,
ma soprattutto in uno dei vertici della raccolta, quella
Jesus Lay Down Beside Me donata direttamente da Nick Cave), eppure
sempre in grado di trasformarle in qualcosa che le appartiene nel profondo.
Da
questo punto di vista Livin on a High Note è un disco in cui affiora maggiore
mestiere (in High Note e History Now, sbucate rispettivamente dalla
penna di Valerie June e Neko Case), quello di una regina del soul, e probabilmente
si sacrifica un minimo di intensità emotiva. Le cause sono da individuare nella
qualità del repertorio, un po' alatalenante, anche se Mavis sembra sempre metterci
una pezza, complice una classe infinita, e in parte anche nella produzione più
controllata, potremmo dire perfezionista, di M Ward. Il quale resta un
bravo artigiano dell'indie folk, ma non ha la finezza e l'acume di Jeff Tweedy
nell'imprimere una direzione personale all'album.
Il suono resta comunque
un avvolgente e professionale concentrato soul in bilico tra antico e modeno,
sostenuto da un ottimo impasto vocale da parte dei coristi Donny Gerrard e Vicki
Randle, e da un bouquet di ricordi che tornano alla leggenda degli Staples Singers
in casa Stax (Action, offerta dai tUnE-yArds,
potrebbe appartenere a quel periodo) e più in generale a quel luminoso approccio
che Mavis cercava quando è entrata in studio con le sue richieste (Don't Cry
dello stesso M. Ward). La chiusura è affidata al brano più intimo, un'acustica
MLK Song che torna agli anni irripetibili
delle battaglie per i diritti civili, citando direttamente alcuni versi del sermone
"Drum Major Instinct" del Reverendo King in persona.