Elisa De Munari, Countin’ The Blues. Donne indomite
[Arcana, 207 pp.]

di Nicola Gervasini

J.H Cone, padre della “teologia nera” (che propone di ripensare la fede cristiana a partire dall'esperienza dei neri d'America), una volta disse che “la Gente del Blues non leggeva Karl Marx”. Il paradosso che sottolineò, infatti, era che, nonostante la sua natura di musica popolare e di fulcro culturale identitario di un popolo oppresso, raramente il blues si era fatto portatore di istanze politiche o di vere e proprie rivendicazioni sociali. Anzi i brani dei bluesman più classici si risolvevano spesso in un sofferente canto individualista, e il razzismo lo davano quasi per scontato, non arrivano quasi mai a contestarlo apertamente. Ma se è vero che il popolo nero è arrivato ad una vera e propria coscienza di classe in senso marxista solo negli anni Sessanta, va anche ricordato che l’industria discografica che portò il blues nelle radio degli americani prima della Seconda Guerra Mondiale era bianca, e, quindi, certo non portata a soffiare sul fuoco della rivoluzione.

Questo porta quindi a pensare che il Reverendo Cone possa anche essersi sbagliato, e che forse negli anni Trenta qualcosa accadeva per le strade e nei tanti show itineranti dell’epoca. Magari quello che avvenne ad esempio durante la guerra del Vietnam, quando sembrò erroneamente che la comunità nera si disinteressasse della questione e delle lotte pacifiste dei bianchi californiani, almeno fino a quando, intorno al 1970, non uscirono i primi successi soul dedicati dall’argomento, come War di Edwin Starr o What’s Going On di Marvin Gaye. Anni dopo si scoprì che invece fin dal 1964 i bluesman denunciarono nelle loro canzoni, sia l’orrore di una guerra insensata, sia il fatto che poi a morire nella giungla ci andavano soprattutto i neri. Peccato però che quelle canzoni vennero scritte, alcune anche registrate, ma mai pubblicate per censura, alimentando quindi una falsa percezione di come la comunità nera viveva gli avvenimenti di quegli anni.

Ed è la stessa falsa percezione che vuole combattere Elisa De Munari, cantante di blues che già abbiamo più volte incontrato sulle nostre pagine con il suo nome d’arte Elli De Mon, che avanza con questo Countin’ The Blues una teoria molto provocatoria sull’impegno sociale del pre-war blues. La sua idea è che una rivoluzione invece c’è stata, ma è rimasta nascosta non solo per le ragioni di cui sopra, ma anche perché era tutta declinata al femminile. Insomma, il nemico era grande, ma anche doppio, e si chiamava non solo razzismo, ma anche maschilismo. Per questo la De Munari ci porta in un viaggio attraverso undici figure di donne del blues davvero poco celebrate (forse Bessie Smith a parte), che hanno definito non solo un modo di scrivere al femminile crudo, diretto e per nulla conciliatorio, ma anche una enorme carica innovativa musicale, spesso ingiustamente cannibalizzata dai colleghi maschi. E lo fa con un interessante parallelo tra la storia di queste blues-women, e quella delle esperienze dirette dell’autrice stessa, e di una schiera di colleghe dei giorni nostri, che tutt’ora devono lottare non solo contro i normali problemi degli artisti indipendenti, ma anche con lo svantaggio di essere donna.

Countin’ the Blues infatti non vuole essere un libro di storia della musica, e neppure un manuale. Verrete sì a sapere cosa succedeva negli anni Trenta negli Stati Uniti e come suonavano il blues queste donne, ma non troverete consigli discografici, ma semmai storie odierne (e tutte italiane) fatte di colleghi maschi sprezzanti, pregiudizi immotivati, battute e avanches inopportune e non richieste, e l’impossibilità di guadagnarsi l’autorevolezza normalmente riconosciuta ai maschi se non combattendo sul campo col doppio dello sforzo. Nulla che ogni donna non debba già affrontare ogni giorno in qualsiasi ambito lavorativo, ma va detto che il quadro che ne esce sull’apertura mentale del mondo musicale italiano non è dei più edificanti. E se il libro spesso si sbilancia molto a raccontare il presente più che il passato, è proprio perché la De Munari trova una grande sincronia tra quanto non sia mai stata riconosciuta e correttamente pesata l’importanza (sia artistica, sia di contributo alla lotta dei diritti umani) di Bessie Smith e compagne, con quanto la lotta quotidiana e nascosta sua e delle sue colleghe, sul palco, sui social, e ovunque, sia un qualcosa che tutti sottovalutiamo.

E l’aver lasciato tanto spazio anche ad altre voci impedisce al libro di sembrare un'invettiva personale, raggiungendo il risultato di trovare in questa nuova scena femminile nostrana segni dell’eredità artistica delle madri del blues. I contributi arrivano quindi da Folake Oladun, Sara Piolanti, Monique Mizhrai, Francesca Morello (R.Y.F.), Stefania Alos Pedretti, Helena Velena, Susanna La Polla De Giovanni (Suz), Francesca Bono, Astrid Dante, Francesca Pizzo, Elisa Abela, Maria Antonietta, Sara Ardizzoni, Anna Mancini, Claudia De Simone, Marta Franceschi, Caterina Palazzi, Vespertina e Francesca Amati, le cui carriere musicali da soliste o in gruppi vi lascio scoprire nel libro, se già non le conoscete. Nessuna di loro è una scrittrice, e poche suonano abitualmente blues, ma lo stile libero con cui raccontano la loro sintonia con il blues al femminile fa sì che il libro assuma, nelle parti a loro dedicate, un tono quasi colloquiale, da chiacchierata tra amiche, a cui fa da contraltare il rigore storiografico e i tanti racconti autobiografici dell’autrice e la prefazione dell’unico uomo ammesso al circolo, Gianluca Diana.

Nel mondo del blues si è discusso spesso sul fatto se fosse o no vero che solo i neri potevano suonare il “vero blues”, in una sorta di razzismo al contrario che per anni ha popolato l’immaginario musicale mondiale (alla Vorrei La Pelle Nera di Nino Ferrer insomma). Quello che Countin’ The Blues ci fa capire è che se invece mai si è discusso se il blues fosse roba da uomini o da donne, è solo perché si è sempre data per scontata la risposta, e si è sempre ignorato l’esistenza delle seconde come possibili punti di riferimento. Ci volle il successo della bianca Bonnie Raitt negli anni Settanta perché una donna riuscisse a farsi valere non solo come “cantante carina dalla voce dolce”, ma “anche” come chitarrista di grande tecnica, e ad oggi ancora la lotta non è affatto finita. Lo sa bene anche Elli De Mon, l’alter-ego da battaglia di Elisa De Munari, che continua a sognare di partire dal famoso crocicchio di Robert Johnson per realizzare il suo sogno di essere un grande musicista blues, trovando possibilmente sulla sua strada gli ostacoli del diavolo, non di tutti i poveri diavoli.


    

 

Le 11 artiste raccontate in Countin’ The Blues
(a cura di Nicola Gervasini)

Bertha "Chippie" Hill (1905 – 1950), è nota soprattutto per il brano Trouble in Mind, inciso nel 1926 con l’accompagnamento della tromba di Louis Armstrong, e divenuto più tardi uno standard nelle versioni di successo di Dinah Washington e Nina Simone. Il brano affronta la questione razziale vista però dal punto di vista di una donna, costretta a subire una doppia discriminazione. Morì a 45 anni per un incidente stradale, molto probabilmente perché abbandonata morente sulla strada in quanto di colore.

Da cercare: Complete Works, Vol. 1 1925–1929 (Document)
   

Ma Rainey, nome d'arte di  Gertrude Pridgett (1886 – 1939), fu una delle prime donne ad incidere brani blues. Nota per il suo stile aggressivo (“The Assassinator of Blues” la chiamarono) e le sue pose sconce e provocatorie sul palco, si esibiva spesso col marito, ma parlò d’amore per la prima volta non con il tono della brava moglie sottomessa, ma con l’orgoglio della donna libera di decidere del proprio corpo. Compreso anche l’amore saffico, provato anche con la sua pupilla Bessie Smith, tanto che la sua Prove It on Me Blues parla per la prima volta apertamente di un amore tra donne.

Da cercare: Mother Of The Blues (JSP/5Cd Box Set)
   

Lucille Bogan (1897 – 1948) incise anche come Bessie Jackson. La sua rivoluzione avvenne attraverso il tema della liberalizzazione sessuale e la scoperta del piacere femminile, e per questa ragione è ricordata soprattutto per i suoi testi al limite della censura, tra i pochissimi dischi di pre-war blues ad avere il bollino “Parental Advisory-Explicit Lyrics”. Shave Em Dry, brano del 1935 (poi riproposto anche da Dr John), inizia ad esempio così: “Ho i capezzoli sulle tette, Grandi come la fine del mio pollice, Ho qualcosa tra le gambe, Che farebbe venire un uomo morto”. Il verso “you make a dead man come” chiude anche Start Me Up dei Rolling Stones…

Da cercare: Shave 'Em Dry: The Best Of Lucille Bogan
   

Alberta Hunter (1895 – 1984). Nota soprattutto per il brano Downhearted Blues, divenuto poi anche uno standard per Ella Fitzgerald. Il brano rivendica con un linguaggio metaforico, noto nel blues come “double talk”, il proprio diritto ad essere amata da un uomo che non sia violento perché frustrato dallo sfruttamento, e traccia quindi un primo interessante parallelo tra la condizione della donna e quello degli schiavi neri.

Da cercare Downhearted Blues – Live at the Cookert (Rockbeat)
   

Lottie Kimbrough Beaman (nata probabilmente nel 1893, non si hanno notizie sulla morte). Soprannominata anche The Kansas City Butterball in considerazione della sua imponente stazza fisica, incise solo tra il 1925 e il 1929. La sua I’m Going Away era un blues che raccontava di una donna che si fa coraggio e lascia il marito violento che abusa di lei, salvo però poi perdonarlo nel finale. È fondamentale per come racconta, in maniera molto moderna, la difficoltà e la solitudine di una donna nel tentare di liberarsi dai soprusi che la circondano.

Da cercare The Best of Country Blues Woman (Wolf Records)

Bessie Smith (1894 – 1937) Anche la più celebre delle “donne blues” deve la sua morte al fatto che l’ambulanza che la soccorse dopo un incidente stradale non poté portarla al più vicino ospedale perché riservato solo ai bianchi. La sua tomba inoltre rimase senza nome per anni, finché Janis Joplin nel 1970 pagò di tasca sua per una lapide. Secondo la De Munari “Bessie aveva capito che tramite il blues, che era fatto tutto di tensione umana e sovraumana, di sacro e profano, poteva trasmettere il suo pensiero e renderlo universale” Il blues di Bessie Smith uscì insomma dalla dimensione individuale per farsi parole di lotta e coraggio per tutti. “Con lei nacque una nuova estetica: l’artista divenne la canzone stessa. Bessie non interpretava le parole, le viveva in prima persona.”

Da cercare: The Anthology (Not Now 2Cd)
   

Sippie Wallace (nata Beulah Belle Thomas, 1898 – 1986) Il blues di Wallace è intriso di senso religioso, e il suo brano Adam and Eve Had The Blues espresse con grande fervore tutta la contraddizione del fatto che il fallimento del suo matrimonio per il suo rivendicare il diritto alla sua identità e libertà di donna, cozzasse contro il suo credo religioso. Bonnie Raitt incise due suoi brani nel suo primo album del 1971, e la volle come set spalla per il suo primo tour, considerandola la sua vera madrina artistica.

Da cercare: Women Be Wise (Alligator Records)
   

Memphis Minnie, vero nome Lizzie Douglas (1897 – 1973), è generalmente considerata la prima donna a passare al blues elettrico, grazie alle sue frequentazioni con la scena blues di Chicago. Di lei si disse che “suonava come un uomo, ma in realtà molti uomini avrebbero voluto suonare come lei”. La sua When the Levee Breaks, metafora dell’oppressione espressa dal racconto di un’alluvione, è una dei pochi blues che i Led Zeppelin non hanno osato far passare come scritto da loro.

Da cercare: Essential Recordings (Primo Collection)
   

Elizabeth "Libba" Cotten (1893 –1987). La madre di tutti i chitarristi mancini, inventò uno stile particolare dettato dal fatto di tenere la chitarra fondamentalmente al contrario, con le note gravi in basso e quelle acute in alto. Eppure, così come Memphis Minnie, viene sempre dimenticata negli elenchi dei chitarristi più innovativi del secolo, nonostante a lei si debba anche la tecnica del fingerpicking rielaborata per il blues (il famoso “Cotten Picking”), reso celebre grazie al brano Freight Train. Sua nipote, Brenda Joyce Evans, è la cantante del gruppo funky The Undisputed Truth.

Da cercare: Shake Sugaree (Smithsonian)
   

Victoria Regina Spivey (1906 – 1976). È lei la donna seduta al piano sul retro della copertina di New Morning di Bob Dylan, una foto del 1962 presa quando il giovanissimo Dylan assistette alle sue session con Big Joe Williams. Anche lei considerata una delle più influenti blues-singer del secolo scorso, eppure pochissimo celebrata per via dei suoi pochi peli sulla lingua nel parlare di sesso, droga (la De Munari nel libro esamina Dope Head Blues sull’argomento), e crimini vari, che era poi quello che vedeva nel suo mondo, visto che per anni si esibì nei bordelli. Per questo suo anticonformismo estremo è considerata una sorta di punk-dark anti-litteram, non a caso spesso omaggiata da Diamanda Galás.

Da cercare: Collection (Acrobat)
   

Geeshie Wiley, nome d’arte di Lillie Mae Boone (1908 – 1950), ma prendete i dati con le pinze perché alcune leggende ipotizzano che addirittura non sia mai esistita. Personaggio misterioso, in grado di lasciare pochissimi brani registrati, ma immortali come Motherless Child Blues e Skinny Legs Blues (la rifanno David Johansen in Shaker e Rhiannon Giddens in Tomorrow Is My Turn), prima di sparire nel nulla nel 1931. Skinny Legs Blues, brano intriso di morte e dolore, è una delle prime testimonianze del dolore di una moglie alla partenza del marito per la guerra (in questo caso la Prima Guerra Mondiale), e sarà il modello per tantissimi brani sul tema usciti poi durante la Guerra del Vietnam. Per un trattato sul brano consiglio anche il libro Three Songs, Three Singers, Three Nations di Greil Marcus, in cui vengono messe a confronto Skinny Legs Blues, Ballad of Hollis Brown di Bob Dylan e I Wish I Was a Mole in the Ground di Bascom Lamar Lunsford.


Una playlist ispirata dalle artiste di Countin’ The Blues



 


<Credits>