The Black Crowes
"The Southern Harmony"

La recente pubblicazione di Croweology, doppia, originale sorta di antologia dove la band ripercorre e rilegge in maniera inedita il proprio repertorio, ci offre l'opportunità di dedicare un'intera monografia ai Black Crowes. Annunciato un nuovo, ennesimo "rompete le righe" (ma noi li aspettiamo al varco...) per ricaricare le batterie, la band dei Robinson brothers rimarrà nel nostro immaginario come una delle più multiformi, ispirate, stellari rivisitazioni che il rock'n'roll abbia vissuto in questi ultimi vent'anni

A cura di Gabriele Gatto

 
:: Il ritratto

 

Ok, è un'affermazione degna di Monsieur de La Palice e forse è anche un po' un luogo comune, comunque resta il fatto che tener su una rock and roll band quando là dentro ci stanno due fratelli è un fottutissimo casino. Finchè le cose restano confinate in una cantina o in qualche club da quattro soldi, magari si può tenere botta senza (troppi) problemi, ma quando di mezzo ci si mettono successo, soldi, donne e tutto quello che intorno a questi tre fattori gira intorno (e ci siamo capiti...), il caos è assicurato. Eppure, già i primi filosofi greci lo dicevano: il kosmos, l'ordine, si genera direttamente dal chaos, misteriosamente e miracolosamente. La storia dei Black Crowes ne è l'ennesima conferma: originari di Atlanta, Georgia, Chris e Rich Robinson iniziano dal basso, come fanno tanti, con la foto dei Rolling Stones sul comodino e un amore sviscerato per il rock'n'roll stile Led Zeppelin, Faces ed Humble Pie e per il rythm'n'blues di marca Stax. L'arte del riff, si sa, richiede una specie di vocazione divina, in tanti ci provano ma in pochi riescono a cavarne fuori qualcosa di decente.

Rich Robinson ne è pienamente cosciente: non è un grande chitarrista e lo sa bene da sé, ma possiede quel dono riservato a pochi eletti. Federico Garcia Lorca parlava di "una misteriosa forza che tutti sentono e nessun filosofo riesce a definire, che costituisce lo spirito della Terra. Quella stessa forza scosse il cuore di Nietzsche, che ne cercò invano la forma esterna nel Ponte di Rialto e nella musica di Bizet, senza sapere che arrivava dritta dai misteri dell'antica Grecia passando dai danzatori di Cadice o nell'urlo delle siguiriye di Silverio. Quella forza che penetra dal basso, passando dai talloni per arrivare dritta in gola si può chiamare duende". Bene, i Black Crowes possiedono il "duende" come nessun altro nella storia recente del rock'n'roll. La loro urgenza creativa, bruciante e scarnificata come il suono delle loro chitarre elettriche li ha portati a cavalcare vent'anni di grandi canzoni e grandi suoni, ficcandosi in tasca tutta la tradizione della musica americana e filtrandola con uno spirito irruento e strafottente. Già, perchè il rock'n'roll è una questione puramente americana e, lasciando questa volta da parte le suggestioni letterarie, ci piace rifarci alle parole di Chris Robinson: "questa roba è nostra, l'abbiamo inventata noi, e gli inglesi si tengano pure il fottuto gioco del calcio".

Così, quando nel 1990 la American Recordings (gente che ci ha sempre visto lungo) fa uscire il loro primo disco, Shake your money maker, sono in molti a rimanere a bocca aperta. In mezzo a gran parte della spazzatura musicale in heavy rotation su una MTV che ormai gira a pieno regime bombardando gli ascoltatori di un distillato di merda purissima, i Black Crowes sono un calcio nei denti all'establishment musicale. Pezzi diretti e senza fronzoli, che paiono usciti dritti dritti dagli anni '70, un suono ricco di chitarre e di soul e la capacità di costruire ballate senza tempo. Pronti via, cinque milioni di copie vendute e quattro brani nella top 30 dell'anno, niente male per un gruppetto di cinque ragazzi strafottenti. In molti, e non ultimi tanti sapientoni della stampa specializzata, cascano nel tranello di considerarli i nuovi esponenti di una corrente metallara, confondendoli con roba come Scorpions o, peggio, Europe. Loro, fricchettoni fino al midollo, non battono ciglio e quando nel 1991 vengono invitati al festival Monsters of rock accanto a Metallica e Pantera sembrano prendere tutti per i fondelli con una strepitosa versione di Rainy day women 12&35 di Bob Dylan intrisa di boogie. Le radici della band sono altrove, sembrano dire. Quando nel 1992, non prima di aver arruolato il fantastico chitarrista Marc Ford, la band dà alle stampe The southern harmony and musical companion, ogni equivoco viene chiarito. I fratelli Robinson, con l'aiuto di una rocciosa sezione ritmica alle spalle ed un chitarrista capace di stupire, si lanciano in avventuroso viaggio, tentando di mischiare insieme il rock degli Stones, dei Faces e degli Humble Pie con gli aromi della Band e dell'America rurale, screziandoli di soul e di gospel. Come per un miracolo, la miscela riesce e l'album diviene una delle pietre miliari degli anni Novanta.

Ma, come si sa, la linea fra chaos e kòsmos è sottile e ci gioca a cavalcarla corre il rischio di finire dentro al delirio più assoluto. Chris e Rich lo sanno: sono complementari ma incompatibili, con la loro voglia di giocarsi fino in fondo ed esplorare tutte le proprie possibilità, al limite del delirio. I cinque anni fra il '93 ed il '97 passano sul filo di un rasoio. Un capolavoro, Amorica, in cui i pezzi si fanno più sanguinanti ed intrisi di psichedelia; un grande disco di rock-blues, Three snake and one charm, ed un tritacarne in cui finiscono dentro due membri della band (Marc Ford, licenziato nel '97, ed il bassista Johnny Colt, che lascia la compagnia esasperato dalla fitta aria di tensione respirata per troppo tempo) e due album fatti e finiti, che verranno per fortuna recuperati nel 2006. Inizia così una fase interlocutoria: i due fratelli sembrano studiarsi a vicenda, e la musica ne risente. Non che i due album usciti fra il '98 ed il 2001 siano brutti, anzi sono pieni zeppi di belle canzoni e grandi suoni. Tuttavia manca quell'afflato che aveva caratterizzato le produzioni precedenti, quella tensione quasi autodistruttiva e misteriosa che permeava la ricerca musicale del gruppo.

Così, nel 2001 lo scioglimento fu una conseguenza quasi logica dello scorrere degli eventi. Tuttavia, esistono delle alchimie che rendono imprevedibile il corso della storia. Sal Paradiso, il leggendario personaggio uscito dalla penna di Jack Kerouac, non riusciva a star lontano da Dean Moriarty: era il suo alter ego, l'altra faccia della sua anima. Così è la vita Chris e Rich, che in più rispetto ai due leggendari vagabondi hanno il legame del sangue a tenerli legati fra di loro a doppio filo. Il fuoco brucia ancora e basta un niente perchè il vento della musica li faccia rimettere insieme. Sarà l'età che avanza, portando con sè un po' di pacatezza in più rispetto agli anni ruggenti, ma quando nel 2005 la band si ricompone, con Marc Ford di nuovo alla sei corde, e dà alle stampe il prezioso live Freak n' Roll...Into The Fog (testimonianza impeccabile, a differenza del Live del '97 e del divertissement registrato con Jimmy Page nel '99), l'impressione è quella di una band che ha raggiunto il proprio equilibrio. Meno sferzate elettriche, una propensione spiccata alla jam e una cover di The night they drove ol' dixie down chiudono il cerchio, parlando attraverso le note di un gruppo di nuovo lanciato verso l'infinito. Non che la situazione si sia fatta del tutto tranquilla, anzi, Marc Ford se ne va nel 2006, comunicando via fax la sua decisone, mentre il tastierista Eddie Harsch viene silurato, segno che il temperamento umano non è un qualcosa che muta così facilmente. Quando però, nel 2007, entra nella line-up Luther Dickinson, non si può fare a meno di notare una band ritornata a livelli altissimi, con gli "accenti sudisti" della loro musica che crescono in modo esponenziale. Un bel disco nuovo di zecca, Warpaint, e poi a capofitto negli studi di Levon Helm (ed è ancora la Band a pararsi sulla strada dei corvacci), a registrare un doppio album come quelli che si facevano una volta, pieno di vita e sospeso fra la dolcezza acustica di ...Until the freeze e le cavalcate rocchenrollistiche di Before the frost... . Il resto è storia recente, l'annuncio di un nuovo scioglimento a tempo indeterminato, il doppio acustico Croweology a ripercorrere vent'anni di carriera e la speranza nemmeno troppo nascosta che il duende dei Black Crowes torni a riunire ancora una volta i due fratelli.

 
 
:: Il capolavoro
 

Amorica
[American, 1994]

1. Gone // 2. Conspiracy // 3. High Head Blues // 4. Cursed Diamond // 5. Non Fiction // 6. She Gave Good // 7. Sunflower // 8. P25 London // 9. Ballad In Urgency // 10. Wiser Time // 11. Downtown Money Waster // 12. Descending // 13. Tied Up And Swallowed

 

Questa scelta di Amorica come capolavoro dei Corvi potrebbe fare incazzare (o lasciare perlomeno perplessi) molti dei nostri lettori. Però nessun album negli anni '90 ha saputo prendere il rock and roll americano tutto e centrifugarlo in "complesse geometrie" (come scriveva Marco Denti) finora inedite nell'intero panorama musicale. Amorica non è un disco semplice, non è nemmeno un disco molto omogeneo, non ha la brillante verve dell'esordio nè la granitica compattezza di The Southern Harmony and Musical Companion ma è una specie di roveto ardente in cui brucia tutta la creatività di una band che ha intrapreso un folle viaggio verso i limiti estremi, le colonne d'Ercole della propria ricerca musicale. Le fortissime tensioni interne, che piano piano avrebbero portato i Black Crowes ad una inesorabile disgregazione, i problemi di droga ed alcool, il rapporto controverso fra i fratelli Robinson, insomma, tutti i guai connessi alla conservazione di una grande rock'n'roll band sono misteriosamente e miracolosamente incanalati in un concentrato di grandi suoni e grandi canzoni, di raffiche chitarristiche, di suggestioni percussive e sprazzi di purissima soul music, intesa come musica che sgorga dall'anima e che all'anima degli ascoltatori parla. Il rock fresco ed essenziale dell'esordio e le venature pastorali e sudiste del secondo album si fanno più contorte, spesso arzigogolate. I giri armonici un tempo piuttosto canonici si disfano per fare spazio ad una ricerca musicale fatta di crescendo improvvisi, di aperture elettriche, di sprazzi ritmici di stampo quasi caraibico. Il cantato di Chris Robinson è ora urlo disperato ora preghiera, intenso come mai. Il crescendo di Cursed diamond, la forza quasi brutale di Gone e A conspirancy, il rock blues deformato dall'elettricità di P.25 London sono l'emblema di una band incredibilmente rocciosa e compatta, in cui spicca la potenza del batterista Steve Gorman e la coesione incredibile fra le due chitarre. Rich Robinson imbastisce con i suoi riff un perfetto tappeto su cui Marc Ford ricama un solismo ricco e corposo, segnato dall'uso della slide. La seconda parte del disco è segnata da atmosfere più meditative e tradizionali, con qualche tesa ballata (Wiser time, Ballad in urgency) ed una Downtown money waster, acustica, che sembra uscita dalle porte di un juke joint del Mississipi. Infine, a chiudere il cerchio, dopo un temporale durato dieci brani giunge quasi imprevista Descending, una vera e propria preghiera che sembra rappresentare un momento catartico per la band e che si conclude con una coda pianistica carica di gospel, quasi a cercare un porto tranquillo per approdare finalmente dopo un viaggio segnato da fulmini e tempeste.

 
:: Dischi essenziali
 

Shake Your Money Maker [Def American, 1990]

"Shake Your Money Maker, ossia dell'essere giovani, arrembanti e strafottenti", questo potrebbe essere tranquillamente il titolo integrale del primo disco dei Black Crowes. In un epoca (siamo nel 1990) in cui le radio e le televisioni fanno a gara a trasmettere la musica più patinata e ridondante possibile, Shake Your Money Maker irrompe sul panorama mondiale senza preavviso esplodendo come una vera e propria bomba ad orologeria. Prodotto da George Drakoulias, un venticinquenne strafottente tanto quanto i membri della band e all'esordio in consolle, l'album è un trionfo di riff semplici e diretti, di suoni potenti ma non gonfi e di chitarre che sferragliano potenti. Un campionario di trucchi rubacchiati qua e là da Rolling Stones e magari anche dagli Humble Pie, certo, però nell'anno del Signore 1990 nessuno si sarebbe mai potuto immaginare che un tale mix, reso più alcolico dal boogie piano di Chuck Leavell (un pezzo pregiato del giro stonesiano) avrebbe potuto sfondare le orecchie degli ascoltatori, vendendo oltre cinque milioni di copie. Il primo singolo fu Hard to Handle, un pezzo non certo dei più famosi recuperato dalla discografia di Otis Redding, a testimoniare un'invereconda passione per il rythm'n'blues di marca Stax ed Atlantic. A sorpresa, il brano balzò in testa alle classifiche dei singoli, così come la ballata She talks to angels, un brano purissimo venato sottilmente di gospel e tenuto su da un meraviglioso intreccio fra chitarre acustiche cristalline ed un organo che sembra elevare la canzone verso il cielo. Il resto è una serie di slanci boogie rock, giri armonici semplici ed essenziali ma mai banali ed un cantato, quello di Chris Robinson, che non aveva nulla da invidiare a quello degli antichi idoli Rod Stewart e Steve Marriott. Il grande successo era arrivato ma i Black Crowes non si accontentavano di sicuro. Il resto della storia lo avrebbe testimoniato.


The Southern Harmony and Musical Companion
[Def American, 1992]

Con la consapevolezza sfrontata di aver già sfondato la prima barriera del successo, i fratelli Robinson si apprestavano a spingere la propria musica oltre i normali canoni del rock'n'roll. La celebrità aveva cominciato a portare i primi scompensi interni al gruppo: a farne le spese fu per primo il chitarrista Jeff Cease, sostituito dal ventiseienne Marc Ford, fino ad allora leader dei Burning Tree, un gruppo che potremmo definire "power blues", e dotato di un talento unico sulla sei corde. Mai avvicendamento fu più propizio: Ford portava con sè un suono decisamente più composito di quello del pur bravo Cease, fatto di slanci psichedelici mescolati ad una spiccata sensibilità sudista ed a un uso della tecnica slide derivante direttamente da Duane Allman. La scrittura della band, ed in particolare di Rich Robinson, era cresciuta in maniera esponenziale, abbandonando le semplici geometrie dell'esordio per lanciarsi in composizioni più complesse ed articolate. Facevano capolino atmosfere più legate alla tradizione pastorale americana, slanci da juke joint ed una predisposizione alla jam elettrica molto più spiccata che in passato. Chris Robinson, poi, sempre più consapevole delle proprie doti vocali, si lanciava nel canto con una potenza espressiva forse mai eguagliata in futuro. Al nascente grunge, che puntava ad un'integrale distruzione della tradizione musicale, trasformata in rabbia pura, i Black Crowes rispondevano con un'immersione totale in quella che era stata la storia musicale d'America. Così, in Thorn on my pride, uno dei brani simbolo del disco, nel bel mezzo di un crescendo elettrico di rara potenza emerge, senza alcun preavviso, un pianoforte che sembra uscire dritto dritto da una chiesa di campagna degli stati del sud. In My morning song invece il gospel è centrifugato in un turbinio elettrico e potente, quasi spettrale, mentre Sometimes salvation è guidata dal graffiante Marc Ford che scortica la sua chitarra per rilasciare uno dei più bei solo degli ultimi vent'anni. I riff dell'esordio non sono del tutto scomparsi, e anzi ne troviamo traccia fin dall'iniziale Sting me, ma si sono fatti più articolati, meno diretti: il risultato è un affresco d'America incredibilmente caleidoscopico e perfetto.


Three Snakes and One Charm
[American, 1996]

Uno sbuffo di organo hammond e poi via, inizia così Three Snakes and One Charm. Siamo nel 1996 e nei due anni trascorsi dall'uscita di Amorica i Corvi si erano trovati a dover affrontare tensioni interne continue, con due album già pronti finiti nello sgabuzzino ed una quantità industriale di litigi, fomentati ancor di più dai fumi dell'alcool e dagli up and down delle droghe. Eppure dai solchi di Three Snakes and One Charm traspare solamente una band che gira a mille. Se The Southern Harmony era stato il disco della maturità ed Amorica il disco di rottura, Three snakes, posto a conclusione di un'ideale trilogia, è il disco in cui più traspare una classicità rock assente nei due predecessori. Il suono si è fatto più pulito, più composto, senza però perdere un briciolo di pathos o di carica emotiva. Ci sono più chitarre acustiche e meno sventagliate elettriche, ci sono meno riff potenti e memorabili ma più attenzione alla struttura dei brani. Le tre tracce iniziali sono quasi perfette: si parte da Under a mountain, sorretta magistralmente da pianoforte ed organo, si prosegue con Good friday, il cui incipit sembra rubato ad un disco di Neil Young, e si giunge allo sferragliare di Nebakanezer, dove le chitarre tornano a ruggire come in passato. Anche il canto di Chris Robinson sembra essersi fatto meno disperato e bruciante ma allo stesso tempo più sicuro di sè. La promozione dell'album viene affidata al singolo funkeggiante Blackberry, certamente non il miglior pezzo dell'album, però provate a stare fermi mentre la ascoltate. Non mancano i punti di contatto con Amorica, certo, ma a prevalere sono i brani più riflessivi, fra i quali domina la magistrale Girl from a pawnshop, dal turbinante crescendo finale. Nulla traspare da questi solchi della gravissima crisi interna del gruppo, che porterà di lì a pochi mesi all'abbandono di Marc Ford e Johnny Colt e alla chiusura di un periodo d'oro della band, mai più eguagliato nonostante gli eccellenti lavori che sarebbero giunti negli anni successivi.


Before the Frost...Untile the Freeze
[Silver Arrow, 2009]

E siamo arrivati alla storia recente, l'ultimo sforzo di una band in stato di grazia che sembra rivivere una nuova giovinezza. Dalle nostre pagine, Fabio Cerbone, concludendo la recensione dell'album parlava di una band che ha ridato un senso pieno alla propria avventura. Before the frost... ed il suo gemellino ...Until the freeze chiudono il cerchio di un'avventura compositiva durata vent'anni esatti e non è un caso che quest'epilogo (almeno per ora...) sia stato registrato dal vivo negli studi di Levon Helm, segno di una band sempre più incamminata su quei sentieri che quarant'anni fa la Band aveva incominciato a solcare. Più ancora che nel capitolo precedente, in questo doppio disco si rivela chiave il ruolo di Luther Dickinson, il cui solismo è sorretto alchemicamente dalla chitarra di Rich, dall'inossidabile sezione ritmica (e Steve Gorman si rivela, ancora una volta, uno dei migliori batteristi in circolazione) e dagli innesti decisamente tradizionalisti dell'ospite Larry Campbell, bravissimo a dividersi fra violino e pedal steel guitar. Il primo disco, Before the frost..., ricalca gli schemi di Warpaint aggiungendovi però una buona dose di freschezza in fase di songwriting e splendidi stacchi jammati, come nella strepitosa coda di Been a long time (waiting on love). Fra le canzoni spicca però una I ain't hiding scelta (ironicamente) come singolo dell'album, un pezzo disco-rock in stile Miss you che dimostra come, nonostante l'apparente tranquillità, i Crowes non abbiano poi perso del tutto l'attitudine ad essere dei gran "cazzari". Ma è il secondo disco, solamente scaricabile dalla rete (a meno che non vogliate regalarvi la versione in vinile, caldamente consigliata) a rivelare le soprese più grandi. Prevalentemente acustico, ...Until the freeze è una gemma folk-rock, un gioiellino nascosto le cui gemme, da Roll on Jeremiah a Shine along, dall'iniziale Aimless peacock dai toni orientaleggianti alla conclusiva Fork in the river, carica di soul, costituiscono uno dei più begli affreschi in musica dell'America rurale realizzati nel nuovo millennio.

 
:: Il resto
 

By Your Side [American/ Columbia, 1999]
Lions [V2, 2001]
The Lost Crowes
[American, 2006]

Dopo la sbornia del quinquennio '92/'96 e lo stravolgimento interno che vide Marc Ford e Johnny Colt rimpiazzati rispettivamente da Audley Freed e Sven Pipien, nel 1999 i Crowes ritornano ancora una volta in pista con l'album By Your Side. Rispetto a Three Snakes, By your side è certamente un chiaro passo indietro, non solo per un'attitudine generale che sembra guardare più alle semplici strutture del disco di esordio che alle complesse geometrie della trilogia con Marc Ford ma anche per un atteggiamento che per la prima volta sembra mostrare una band più attenta a guardarsi alle spalle che a cercare nuove vie nel proprio percorso artistico. Chiariamoci, By your side è un gran bel disco di fottuto rock'n'roll senza fronzoli nè giri di parole, decisamente più immediato dei precedenti. Resta però l'impressione di una band che comincia ad adagiarsi sugli allori, divertendosi un sacco a giocare con riff e giri già sentiti tante volte (ma, attenzione, non per questo meno esaltanti) e di una produzione, affidata a Kevin Shirley, più grossolana che in passato. Colpisce invece un'attitudine soul molto più marcata che in passato e testimoniata dalle splendide Only a fool e Welcome to the goodtimes, suggellate da azzeccatissimi accompagnamenti fiatistici ed una aria generale decisamente più rilassata che in passato.

Il primo vero passo falso si deve però registrare con l'album Lions, anno di grazia 2001, un disco al quale la band arriva col fiatone. Lions è un lavoro a tutti gli effetti diretto da Rich Robinson, che figura in veste di chitarrista unico e di bassista, alternandosi con Don Was, produttore del disco. Della compattezza degli anni d'oro non rimane quasi alcuna traccia, seppellita da un suono annacquato, "radio-friendly" e privo di sfumature, dovuto anche alla limitatezza di Rich come solista. Quello che latita di più, però, è la capacità di scrivere grandi canzoni come avveniva in passato ed, in effetti, a parte Soul singin' che avrà in seguito la sua apoteosi su Croweology, i brani non lasciano quasi traccia nell'ascoltatore. Insomma, un disco per nulla riuscito e testimone di una band che sembra avviata verso il viale del tramonto, cui farà seguito un album live abbastanza impietoso se confrontato con i bootleg del periodo con Marc Ford.

Discorso diverso per il doppio The Lost Crowes, uscito nel 2006 e nel quale sono raccolti i due lost album Tall e Band, rispettivamente registrati nel 1993 e nel 1997. Nel primo disco, Tall, si riscopre una band nel pieno del proprio fervore creativo, bruciante di idee e nella quale le fortissime tensioni riuscivano a venir catalizzate in una ricerca musicale di eccezionale intensità. In esso troviamo alcune delle versioni originarie di brani che sarebbero finiti in gran parte su Amorica, Evil eye che sarebbe stata poi inserita in Three Snakes e tre inediti assoluti, Dirty hair halo, Feathers e Tornado. Tall è una sorta di work-in-progress, un'istantanea di un gruppo al lavoro ansioso di dare la giusta dimensione alle proprie composizioni. Band è invece un lavoro più irruento e sfrontato, testimonianza fedele della volontà dei Corvi di ritrovare una dimensione di divertimento ed unità dopo la burrasca seguita ad Amorica. Qui è la semplicità di By Your Side ad essere anticipata: regna sovrana una voglia di suonare insieme e di fare un gran casino, componente indispensabile per una qualsivoglia rock'n'roll band. Le canzoni, quasi tutte inedite, sono di grande valore e di presa decisamente immediata. Spicca una maggiore attenzione alla ricerca di una formula compositiva meno articolata ed accattivante fin dal primo ascolto. In questo senso, perfette testimonianze sono Lifevest e Grinnin', oltre alla splendida ballata acustica My heart's killing me con tanto di violino ad impreziosirla. Insomma, The Lost Crowes è un perfetto viatico per riscoprire alcune gemme nascoste, come appendice preziosa per i grandi dischi degli anni '90.


Warpaint
[Silver Arrow, 2008]

Dopo ben sette anni dall'ultimo disco in studio, e dopo una notevole serie di vicissitudini e trambusti vari, i Black Crowes ritornano in campo ed ancora una volta centrano perfettamente il loro obiettivo. Segnali più che confortanti erano in verità già arrivati nel 2006 con il live Freak'n'roll...into the fog che mostrava una band di nuovo ritornata in piena salute, con un pizzico di sfacciataggine in meno rispetto agli esordi ma una maturità ed una compattezza raramente sfoggiata negli anni precedenti. Ma quando si parla dei Black Crowes non si può sperare che la linea degli eventi scorra in maniera fluida e senza brusche deviazioni: il chitarrista Marc Ford, rientrato nei ranghi da breve tempo, viene silurato senza troppi complimenti (per problemi di droga, dicono i Robinson bros., per antipatie ed insofferenze mai sopite, dicono i ben informati). Al suo posto viene chiamato uno dei migliori giovani chitarristi in circolazione, Luther Dickinson, che con il fratello Cody rappresenta l'anima dei North Mississipi Allstars, una delle più esaltanti band di southern rock emerse nell'ultimo lustro. Mai scelta fu più azzeccata: lasciate da parte le scorrerie psichedeliche di Ford, il solismo di Dickinson, il cui uso della slide riporta direttamente la memoria ad un certo Duane Allman, aumenta esponenzialmente il tasso di sud nella musica dei Crowes, regalando accenti rurali solo sfiorati in passato. L'album Warpaint ne è una prova esemplare: dopo il passo falso di Lions e le prove soliste altalenanti dei fratelli Robinson (per quanto This Magnificent Distance di Chris rimanga un disco più che eccellente), riecco una band che gira a meraviglia, nella quale pare tornata la serenità. Warpaint è un disco estremamente compatto, privo dei guizzi imprevedibili che avevano contraddistinto i capolavori degli anni precedenti ma ricco di spunti entusiasmanti, dalla cavalcate rock-blues Walk believer walk ed Evergreen per arrivare ai brani più pastorali ed intensi come Locust street, a buon diritto rientrante fra le migliori composizioni del gruppo, o la conclusiva Whoa mule, purissima roots-music, delle migliori. Un grande ritorno.


LIVE RECORDS
Live at the Greek (with Jimmy Page)
[SPV, 2000]
Live
[V2, 2002]
Freak'n'roll...into the fog [Eagle, 2006]
Warpaint: live
[Eagle, 2009]

Una delle componenti fondamentali dell'arte dei Black Crowes, come di ogni rock'n'roll band che si rispetti, è costituita indubbiamente dal live act. Tuttavia, per avere una testimonianza dei Corvi dal vivo degna della loro fama si è dovuto aspettare fino al 2006 con l'uscita, sia in formato cd che in formato dvd, dello strepitoso Freak'n'roll...into the fog, testimonianza della reunion con Marc Ford (di breve durata) registrata al leggendario Fillmore West di San Francisco, una vera e propria conscacrazione per i Corvi, ammessi nel tempio dei grandi degli anni settanta. Non ci sono tracce (se non su bootleg) dei tour del periodo d'oro della band, quello con Ford alla chitarra e Colt al basso, ed è un peccato perchè dalle registrazioni pirata circolanti fra gli appassionati si può riconoscere un gruppo al vertice della propria parabola artistica.

Il primo album dal vivo è datato 2000 e vede i Black Crowes impegnati al fianco di Jimmy Page nella rilettura di 20 classici del rock, provenienti quasi interamente dal repertorio dei Led Zeppelin, con qualche incursione in territorio di standard blues. Il risultato è una macchina infernale che gira divinamente e permette a Jimmy Page di lanciarsi in cavalcate soliste esaltanti come non capitava dai tempi in cui militava con Paul Rodgers nel progetto Firm, fra una torrenziale Lemon song della durata di quasi nove minuti ed un'incendiaria versione di Oh well, proveniente dalla geniale penna di Peter Green. Le performance vocali di Chris Robinson sono spiritate ed entusiasmanti, segno di un amore incontrovertibile e sfrenato per il repertorio interpretato, mentre la band, spronata dall'opportunità di suonare con una leggenda del rock si dimostra lontana anni luce da quel gruppo sulla via del tramonto che i solchi di Lions sembravano mostrare.

Peccato però che il primo album dal vivo vero e proprio dei Black Crowes, datato 2002 ed intitolato semplicemente Live, sia una mezza delusione. Nella band sono entrati stabilmente Audley Freed e Steve Pipien, anche se nè l'uno nè l'altro partecipano alle session di Lions. Il disco, doppio, viene registrato a Boston nelle ultime due serate del tour del 2001, gli ultimi concerti prima dello scioglimento, e vede all'opera un gruppo che procede quasi per inerzia, senza la carica che ne aveva contraddistinto gli anni migliori. A peggiorare la situazione si aggiunge una qualità di registrazione decisamente scarsa, che penalizza ancor più l'ascolto.

Tutt'altra musica è invece il già citato Freak'n'roll...into the fog, che vede all'opera una band ricostituitasi da breve tempo e nella quale è stato reintegrato a pieno titolo (anche se per poco) anche Marc Ford. Freak'n'roll è una testimonianza sontuosa di un gruppo in cui è ritornata la voglia di suonare insieme e dimostrare di essere ancora i migliori interpreti di rock'n'roll in circolazione. I brani si dilatano in chilometriche jam, nelle quali le chitarre di Rich e di Ford tornano a ruggire come ai tempi migliori. My morning song (quasi quattordici minuti), Non fiction e Let me share the ride (quasi dieci minuti a testa) sono perfette occasioni per lanciarsi in improvvisazioni brucianti che non hanno nulla da invidiare ai duelli di chitarre dei primi anni '90. Ad impreziosire il tutto si aggiungono gli splendidi fiati dei Memphis Horns, che colorano di soul le solide architetture musicali dei Corvi. A chiudere il cerchio arriva poi The night they drove old dixie down, a ricordare, se mai ce ne fosse bisogno, un legame mai rinnegato con le radici americane.

L'ultima testimonianza live in ordine di tempo è datata 2009 e vede i Black Crowes rinnovati con l'ingresso di Luther Dickinson. Warpaint: live è la fotografia di una band in stato di grazia, con il nuovo arrivato che dà sfoggio di tutte le sue doti chitarristiche, e che ha finalmente trovato la quadratura del cerchio, un suono contemporaneamente antico e moderno. I legami con la tradizione sono riaffermati potentemente nel secondo cd, nel quale troneggiano le cover di Torn and frayed, il giusto tributo pagato agli Stones di Exile on main street, e Poor Elijah e Don't know why, a rivangare un inveterato amore per Deaney & Bonnie. Il primo cd, invece, è una riproposizione integrale dell'album Warpaint, suonato con una grinta ed una perfezione stilistica che nulla ha da invidiare alla versione in studio e, anzi, vi aggiunge un sacro fuoco non sempre rintracciabile nelle versioni originali, a testimonianza di un gruppo proiettato ad una maturità artistica fulgente.

 
:: Riepilogo (discografia)


Shake Your Money Maker (Def American, 1990) 8
The Southern Harmony and Musical Companion (Def American, 1992) 9
Amorica (American, 1994) 10
Three Snakes and One Charm (American, 1996) 8.5
By Your Side (American, 1999) 7.5
Live at the Greek (with Jimmy Page) (SPV, 1999) 7.5
Lions (V2, 2001) 5.5
Live (V2, 2002) 6
Freak 'n' Roll...Into the Fog (Eagle Rock, 2005) 8
Warpaint (Silver Arrow, 2008) 7.5
Warpaint Live (Silver Arrow, 2009) 7.5
Before the Frost...Until the Freeze (Silver Arrow, 2009) 8.5
Croweology (Silver Arrow, 2010) 8


Black Crowes on David Letterman Show







<Credits>