Ok, è un'affermazione
degna di Monsieur de La Palice e forse è anche un po' un luogo comune,
comunque resta il fatto che tener su una rock and roll band quando
là dentro ci stanno due fratelli è un fottutissimo casino. Finchè
le cose restano confinate in una cantina o in qualche club da quattro
soldi, magari si può tenere botta senza (troppi) problemi, ma quando
di mezzo ci si mettono successo, soldi, donne e tutto quello che intorno
a questi tre fattori gira intorno (e ci siamo capiti...), il caos
è assicurato. Eppure, già i primi filosofi greci lo dicevano: il kosmos,
l'ordine, si genera direttamente dal chaos, misteriosamente e miracolosamente.
La storia dei Black Crowes ne è l'ennesima conferma: originari
di Atlanta, Georgia, Chris e Rich Robinson iniziano dal basso, come
fanno tanti, con la foto dei Rolling Stones sul comodino e un amore
sviscerato per il rock'n'roll stile Led Zeppelin, Faces ed Humble
Pie e per il rythm'n'blues di marca Stax. L'arte del riff, si sa,
richiede una specie di vocazione divina, in tanti ci provano ma in
pochi riescono a cavarne fuori qualcosa di decente.
Rich Robinson ne è pienamente cosciente: non è un grande chitarrista
e lo sa bene da sé, ma possiede quel dono riservato a pochi eletti.
Federico Garcia Lorca parlava di "una misteriosa forza che tutti
sentono e nessun filosofo riesce a definire, che costituisce lo spirito
della Terra. Quella stessa forza scosse il cuore di Nietzsche, che
ne cercò invano la forma esterna nel Ponte di Rialto e nella musica
di Bizet, senza sapere che arrivava dritta dai misteri dell'antica
Grecia passando dai danzatori di Cadice o nell'urlo delle siguiriye
di Silverio. Quella forza che penetra dal basso, passando dai talloni
per arrivare dritta in gola si può chiamare duende". Bene, i Black
Crowes possiedono il "duende" come nessun altro nella storia
recente del rock'n'roll. La loro urgenza creativa, bruciante e scarnificata
come il suono delle loro chitarre elettriche li ha portati a cavalcare
vent'anni di grandi canzoni e grandi suoni, ficcandosi in tasca tutta
la tradizione della musica americana e filtrandola con uno spirito
irruento e strafottente. Già, perchè il rock'n'roll è una questione
puramente americana e, lasciando questa volta da parte le suggestioni
letterarie, ci piace rifarci alle parole di Chris Robinson:
"questa roba è nostra, l'abbiamo inventata noi, e gli inglesi si tengano
pure il fottuto gioco del calcio".
Così, quando nel 1990 la American Recordings (gente che ci ha sempre
visto lungo) fa uscire il loro primo disco, Shake your money
maker, sono in molti a rimanere a bocca aperta. In mezzo a
gran parte della spazzatura musicale in heavy rotation su una MTV
che ormai gira a pieno regime bombardando gli ascoltatori di un distillato
di merda purissima, i Black Crowes sono un calcio nei denti all'establishment
musicale. Pezzi diretti e senza fronzoli, che paiono usciti dritti
dritti dagli anni '70, un suono ricco di chitarre e di soul e la capacità
di costruire ballate senza tempo. Pronti via, cinque milioni di copie
vendute e quattro brani nella top 30 dell'anno, niente male per un
gruppetto di cinque ragazzi strafottenti. In molti, e non ultimi tanti
sapientoni della stampa specializzata, cascano nel tranello di considerarli
i nuovi esponenti di una corrente metallara, confondendoli con roba
come Scorpions o, peggio, Europe. Loro, fricchettoni fino al midollo,
non battono ciglio e quando nel 1991 vengono invitati al festival
Monsters of rock accanto a Metallica e Pantera sembrano prendere tutti
per i fondelli con una strepitosa versione di Rainy day women
12&35 di Bob Dylan intrisa di boogie. Le radici della band
sono altrove, sembrano dire. Quando nel 1992, non prima di aver arruolato
il fantastico chitarrista Marc Ford, la band dà alle stampe
The southern harmony and musical companion, ogni equivoco
viene chiarito. I fratelli Robinson, con l'aiuto di una rocciosa sezione
ritmica alle spalle ed un chitarrista capace di stupire, si lanciano
in avventuroso viaggio, tentando di mischiare insieme il rock degli
Stones, dei Faces e degli Humble Pie con gli aromi della Band e dell'America
rurale, screziandoli di soul e di gospel. Come per un miracolo, la
miscela riesce e l'album diviene una delle pietre miliari degli anni
Novanta.
Ma, come si sa,
la linea fra chaos e kòsmos è sottile e ci gioca a cavalcarla corre
il rischio di finire dentro al delirio più assoluto. Chris e Rich
lo sanno: sono complementari ma incompatibili, con la loro voglia
di giocarsi fino in fondo ed esplorare tutte le proprie possibilità,
al limite del delirio. I cinque anni fra il '93 ed il '97 passano
sul filo di un rasoio. Un capolavoro, Amorica, in cui
i pezzi si fanno più sanguinanti ed intrisi di psichedelia; un grande
disco di rock-blues, Three snake and one charm, ed un
tritacarne in cui finiscono dentro due membri della band (Marc Ford,
licenziato nel '97, ed il bassista Johnny Colt, che lascia la compagnia
esasperato dalla fitta aria di tensione respirata per troppo tempo)
e due album fatti e finiti, che verranno per fortuna recuperati nel
2006. Inizia così una fase interlocutoria: i due fratelli sembrano
studiarsi a vicenda, e la musica ne risente. Non che i due album usciti
fra il '98 ed il 2001 siano brutti, anzi sono pieni zeppi di belle
canzoni e grandi suoni. Tuttavia manca quell'afflato che aveva caratterizzato
le produzioni precedenti, quella tensione quasi autodistruttiva e
misteriosa che permeava la ricerca musicale del gruppo.
Così, nel 2001 lo scioglimento fu una conseguenza quasi logica dello
scorrere degli eventi. Tuttavia, esistono delle alchimie che rendono
imprevedibile il corso della storia. Sal Paradiso, il leggendario
personaggio uscito dalla penna di Jack Kerouac, non riusciva a star
lontano da Dean Moriarty: era il suo alter ego, l'altra faccia della
sua anima. Così è la vita Chris e Rich, che in più rispetto ai due
leggendari vagabondi hanno il legame del sangue a tenerli legati fra
di loro a doppio filo. Il fuoco brucia ancora e basta un niente perchè
il vento della musica li faccia rimettere insieme. Sarà l'età che
avanza, portando con sè un po' di pacatezza in più rispetto agli anni
ruggenti, ma quando nel 2005 la band si ricompone, con Marc Ford di
nuovo alla sei corde, e dà alle stampe il prezioso live Freak
n' Roll...Into The Fog (testimonianza impeccabile, a differenza
del Live del '97 e del divertissement registrato con Jimmy Page nel
'99), l'impressione è quella di una band che ha raggiunto il proprio
equilibrio. Meno sferzate elettriche, una propensione spiccata alla
jam e una cover di The night they drove ol' dixie down chiudono
il cerchio, parlando attraverso le note di un gruppo di nuovo lanciato
verso l'infinito. Non che la situazione si sia fatta del tutto tranquilla,
anzi, Marc Ford se ne va nel 2006, comunicando via fax la sua decisone,
mentre il tastierista Eddie Harsch viene silurato, segno che il temperamento
umano non è un qualcosa che muta così facilmente. Quando però, nel
2007, entra nella line-up Luther Dickinson, non si può fare a meno
di notare una band ritornata a livelli altissimi, con gli "accenti
sudisti" della loro musica che crescono in modo esponenziale. Un bel
disco nuovo di zecca, Warpaint, e poi a capofitto negli
studi di Levon Helm (ed è ancora la Band a pararsi sulla strada dei
corvacci), a registrare un doppio album come quelli che si facevano
una volta, pieno di vita e sospeso fra la dolcezza acustica di ...Until
the freeze e le cavalcate rocchenrollistiche di Before
the frost... . Il resto è storia recente, l'annuncio di un
nuovo scioglimento a tempo indeterminato, il doppio acustico Croweology
a ripercorrere vent'anni di carriera e la speranza nemmeno troppo
nascosta che il duende dei Black Crowes torni a riunire ancora una
volta i due fratelli.
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Shake Your Money Maker [Def American, 1990]
"Shake
Your Money Maker, ossia dell'essere giovani, arrembanti e strafottenti", questo
potrebbe essere tranquillamente il titolo integrale del primo disco dei Black
Crowes. In un epoca (siamo nel 1990) in cui le radio e le televisioni fanno
a gara a trasmettere la musica più patinata e ridondante possibile, Shake
Your Money Maker irrompe sul panorama mondiale senza preavviso esplodendo
come una vera e propria bomba ad orologeria. Prodotto da George Drakoulias,
un venticinquenne strafottente tanto quanto i membri della band e all'esordio
in consolle, l'album è un trionfo di riff semplici e diretti, di suoni potenti
ma non gonfi e di chitarre che sferragliano potenti. Un campionario di trucchi
rubacchiati qua e là da Rolling Stones e magari anche dagli Humble Pie, certo,
però nell'anno del Signore 1990 nessuno si sarebbe mai potuto immaginare che un
tale mix, reso più alcolico dal boogie piano di Chuck Leavell (un pezzo pregiato
del giro stonesiano) avrebbe potuto sfondare le orecchie degli ascoltatori, vendendo
oltre cinque milioni di copie. Il primo singolo fu Hard
to Handle, un pezzo non certo dei più famosi recuperato dalla discografia
di Otis Redding, a testimoniare un'invereconda passione per il rythm'n'blues di
marca Stax ed Atlantic. A sorpresa, il brano balzò in testa alle classifiche dei
singoli, così come la ballata She talks to angels,
un brano purissimo venato sottilmente di gospel e tenuto su da un meraviglioso
intreccio fra chitarre acustiche cristalline ed un organo che sembra elevare la
canzone verso il cielo. Il resto è una serie di slanci boogie rock, giri armonici
semplici ed essenziali ma mai banali ed un cantato, quello di Chris Robinson,
che non aveva nulla da invidiare a quello degli antichi idoli Rod Stewart e Steve
Marriott. Il grande successo era arrivato ma i Black Crowes non si accontentavano
di sicuro. Il resto della storia lo avrebbe testimoniato.
The Southern Harmony and Musical Companion [Def
American, 1992] Con
la consapevolezza sfrontata di aver già sfondato la prima barriera del successo,
i fratelli Robinson si apprestavano a spingere la propria musica oltre i normali
canoni del rock'n'roll. La celebrità aveva cominciato a portare i primi scompensi
interni al gruppo: a farne le spese fu per primo il chitarrista Jeff Cease, sostituito
dal ventiseienne Marc Ford, fino ad allora leader dei Burning Tree, un
gruppo che potremmo definire "power blues", e dotato di un talento unico sulla
sei corde. Mai avvicendamento fu più propizio: Ford portava con sè un suono decisamente
più composito di quello del pur bravo Cease, fatto di slanci psichedelici mescolati
ad una spiccata sensibilità sudista ed a un uso della tecnica slide derivante
direttamente da Duane Allman. La scrittura della band, ed in particolare di Rich
Robinson, era cresciuta in maniera esponenziale, abbandonando le semplici geometrie
dell'esordio per lanciarsi in composizioni più complesse ed articolate. Facevano
capolino atmosfere più legate alla tradizione pastorale americana, slanci da juke
joint ed una predisposizione alla jam elettrica molto più spiccata che in passato.
Chris Robinson, poi, sempre più consapevole delle proprie doti vocali, si lanciava
nel canto con una potenza espressiva forse mai eguagliata in futuro. Al nascente
grunge, che puntava ad un'integrale distruzione della tradizione musicale, trasformata
in rabbia pura, i Black Crowes rispondevano con un'immersione totale in
quella che era stata la storia musicale d'America. Così, in Thorn
on my pride, uno dei brani simbolo del disco, nel bel mezzo di un crescendo
elettrico di rara potenza emerge, senza alcun preavviso, un pianoforte che sembra
uscire dritto dritto da una chiesa di campagna degli stati del sud. In My
morning song invece il gospel è centrifugato in un turbinio elettrico
e potente, quasi spettrale, mentre Sometimes salvation
è guidata dal graffiante Marc Ford che scortica la sua chitarra per rilasciare
uno dei più bei solo degli ultimi vent'anni. I riff dell'esordio non sono del
tutto scomparsi, e anzi ne troviamo traccia fin dall'iniziale Sting
me, ma si sono fatti più articolati, meno diretti: il risultato è un
affresco d'America incredibilmente caleidoscopico e perfetto.
Three Snakes and One Charm [American, 1996]
Uno
sbuffo di organo hammond e poi via, inizia così Three Snakes and One Charm.
Siamo nel 1996 e nei due anni trascorsi dall'uscita di Amorica i Corvi si erano
trovati a dover affrontare tensioni interne continue, con due album già pronti
finiti nello sgabuzzino ed una quantità industriale di litigi, fomentati ancor
di più dai fumi dell'alcool e dagli up and down delle droghe. Eppure dai
solchi di Three Snakes and One Charm traspare solamente una band che gira a mille.
Se The Southern Harmony era stato il disco della maturità ed Amorica il disco
di rottura, Three snakes, posto a conclusione di un'ideale trilogia, è il disco
in cui più traspare una classicità rock assente nei due predecessori. Il suono
si è fatto più pulito, più composto, senza però perdere un briciolo di pathos
o di carica emotiva. Ci sono più chitarre acustiche e meno sventagliate elettriche,
ci sono meno riff potenti e memorabili ma più attenzione alla struttura dei brani.
Le tre tracce iniziali sono quasi perfette: si parte da Under
a mountain, sorretta magistralmente da pianoforte ed organo, si prosegue
con Good friday, il cui incipit sembra rubato
ad un disco di Neil Young, e si giunge allo sferragliare di Nebakanezer, dove
le chitarre tornano a ruggire come in passato. Anche il canto di Chris Robinson
sembra essersi fatto meno disperato e bruciante ma allo stesso tempo più sicuro
di sè. La promozione dell'album viene affidata al singolo funkeggiante Blackberry,
certamente non il miglior pezzo dell'album, però provate a stare fermi mentre
la ascoltate. Non mancano i punti di contatto con Amorica, certo, ma a prevalere
sono i brani più riflessivi, fra i quali domina la magistrale Girl
from a pawnshop, dal turbinante crescendo finale. Nulla traspare da
questi solchi della gravissima crisi interna del gruppo, che porterà di lì a pochi
mesi all'abbandono di Marc Ford e Johnny Colt e alla chiusura di un periodo d'oro
della band, mai più eguagliato nonostante gli eccellenti lavori che sarebbero
giunti negli anni successivi.
Before the Frost...Untile the Freeze [Silver
Arrow, 2009] E
siamo arrivati alla storia recente, l'ultimo sforzo di una band in stato di grazia
che sembra rivivere una nuova giovinezza. Dalle nostre pagine, Fabio Cerbone,
concludendo la recensione dell'album parlava di una band che ha ridato un senso
pieno alla propria avventura. Before the frost... ed il suo gemellino
...Until the freeze chiudono il cerchio di un'avventura compositiva
durata vent'anni esatti e non è un caso che quest'epilogo (almeno per ora...)
sia stato registrato dal vivo negli studi di Levon Helm, segno di una band sempre
più incamminata su quei sentieri che quarant'anni fa la Band aveva incominciato
a solcare. Più ancora che nel capitolo precedente, in questo doppio disco si rivela
chiave il ruolo di Luther Dickinson, il cui solismo è sorretto alchemicamente
dalla chitarra di Rich, dall'inossidabile sezione ritmica (e Steve Gorman si rivela,
ancora una volta, uno dei migliori batteristi in circolazione) e dagli innesti
decisamente tradizionalisti dell'ospite Larry Campbell, bravissimo a dividersi
fra violino e pedal steel guitar. Il primo disco, Before the frost..., ricalca
gli schemi di Warpaint aggiungendovi però una buona dose di freschezza in fase
di songwriting e splendidi stacchi jammati, come nella strepitosa coda di Been
a long time (waiting on love). Fra le canzoni spicca però una I
ain't hiding scelta (ironicamente) come singolo dell'album, un pezzo
disco-rock in stile Miss you che dimostra come, nonostante l'apparente tranquillità,
i Crowes non abbiano poi perso del tutto l'attitudine ad essere dei gran "cazzari".
Ma è il secondo disco, solamente scaricabile dalla rete (a meno che non vogliate
regalarvi la versione in vinile, caldamente consigliata) a rivelare le soprese
più grandi. Prevalentemente acustico, ...Until the freeze è una gemma folk-rock,
un gioiellino nascosto le cui gemme, da Roll on Jeremiah
a Shine along, dall'iniziale Aimless
peacock dai toni orientaleggianti alla conclusiva Fork
in the river, carica di soul, costituiscono uno dei più begli affreschi
in musica dell'America rurale realizzati nel nuovo millennio.
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By Your Side
[American/ Columbia, 1999]
Lions [V2, 2001]
The Lost
Crowes [American, 2006]
Dopo
la sbornia del quinquennio '92/'96 e lo stravolgimento interno che vide Marc Ford
e Johnny Colt rimpiazzati rispettivamente da Audley Freed e Sven Pipien, nel 1999
i Crowes ritornano ancora una volta in pista con l'album By Your Side.
Rispetto a Three Snakes, By your side è certamente un chiaro passo indietro, non
solo per un'attitudine generale che sembra guardare più alle semplici strutture
del disco di esordio che alle complesse geometrie della trilogia con Marc Ford
ma anche per un atteggiamento che per la prima volta sembra mostrare una band
più attenta a guardarsi alle spalle che a cercare nuove vie nel proprio percorso
artistico. Chiariamoci, By your side è un gran bel disco di fottuto rock'n'roll
senza fronzoli nè giri di parole, decisamente più immediato dei precedenti. Resta
però l'impressione di una band che comincia ad adagiarsi sugli allori, divertendosi
un sacco a giocare con riff e giri già sentiti tante volte (ma, attenzione, non
per questo meno esaltanti) e di una produzione, affidata a Kevin Shirley,
più grossolana che in passato. Colpisce invece un'attitudine soul molto più marcata
che in passato e testimoniata dalle splendide Only a
fool e Welcome to the goodtimes,
suggellate da azzeccatissimi accompagnamenti fiatistici ed una aria generale decisamente
più rilassata che in passato.
Il primo vero passo falso si deve però registrare
con l'album Lions, anno di grazia 2001, un disco al quale la band
arriva col fiatone. Lions è un lavoro a tutti gli effetti diretto da Rich Robinson,
che figura in veste di chitarrista unico e di bassista, alternandosi con Don
Was, produttore del disco. Della compattezza degli anni d'oro non rimane quasi
alcuna traccia, seppellita da un suono annacquato, "radio-friendly" e privo di
sfumature, dovuto anche alla limitatezza di Rich come solista. Quello che latita
di più, però, è la capacità di scrivere grandi canzoni come avveniva in passato
ed, in effetti, a parte Soul singin' che avrà
in seguito la sua apoteosi su Croweology, i brani non lasciano quasi traccia nell'ascoltatore.
Insomma, un disco per nulla riuscito e testimone di una band che sembra avviata
verso il viale del tramonto, cui farà seguito un album live abbastanza impietoso
se confrontato con i bootleg del periodo con Marc Ford.
Discorso
diverso per il doppio The Lost Crowes, uscito nel 2006 e nel quale
sono raccolti i due lost album Tall e Band, rispettivamente registrati nel 1993
e nel 1997. Nel primo disco, Tall, si riscopre una band nel pieno
del proprio fervore creativo, bruciante di idee e nella quale le fortissime tensioni
riuscivano a venir catalizzate in una ricerca musicale di eccezionale intensità.
In esso troviamo alcune delle versioni originarie di brani che sarebbero finiti
in gran parte su Amorica, Evil eye che sarebbe
stata poi inserita in Three Snakes e tre inediti assoluti, Dirty
hair halo, Feathers e Tornado.
Tall è una sorta di work-in-progress, un'istantanea di un gruppo al lavoro ansioso
di dare la giusta dimensione alle proprie composizioni. Band è invece
un lavoro più irruento e sfrontato, testimonianza fedele della volontà dei Corvi
di ritrovare una dimensione di divertimento ed unità dopo la burrasca seguita
ad Amorica. Qui è la semplicità di By Your Side ad essere anticipata: regna sovrana
una voglia di suonare insieme e di fare un gran casino, componente indispensabile
per una qualsivoglia rock'n'roll band. Le canzoni, quasi tutte inedite, sono di
grande valore e di presa decisamente immediata. Spicca una maggiore attenzione
alla ricerca di una formula compositiva meno articolata ed accattivante fin dal
primo ascolto. In questo senso, perfette testimonianze sono Lifevest
e Grinnin', oltre alla splendida ballata acustica
My heart's killing me con tanto di violino
ad impreziosirla. Insomma, The Lost Crowes è un perfetto viatico per riscoprire
alcune gemme nascoste, come appendice preziosa per i grandi dischi degli anni
'90.
Warpaint [Silver Arrow, 2008]
Dopo
ben sette anni dall'ultimo disco in studio, e dopo una notevole serie di vicissitudini
e trambusti vari, i Black Crowes ritornano in campo ed ancora una volta
centrano perfettamente il loro obiettivo. Segnali più che confortanti erano in
verità già arrivati nel 2006 con il live Freak'n'roll...into the fog che mostrava
una band di nuovo ritornata in piena salute, con un pizzico di sfacciataggine
in meno rispetto agli esordi ma una maturità ed una compattezza raramente sfoggiata
negli anni precedenti. Ma quando si parla dei Black Crowes non si può sperare
che la linea degli eventi scorra in maniera fluida e senza brusche deviazioni:
il chitarrista Marc Ford, rientrato nei ranghi da breve tempo, viene silurato
senza troppi complimenti (per problemi di droga, dicono i Robinson bros., per
antipatie ed insofferenze mai sopite, dicono i ben informati). Al suo posto viene
chiamato uno dei migliori giovani chitarristi in circolazione, Luther Dickinson,
che con il fratello Cody rappresenta l'anima dei North Mississipi Allstars, una
delle più esaltanti band di southern rock emerse nell'ultimo lustro. Mai scelta
fu più azzeccata: lasciate da parte le scorrerie psichedeliche di Ford, il solismo
di Dickinson, il cui uso della slide riporta direttamente la memoria ad un certo
Duane Allman, aumenta esponenzialmente il tasso di sud nella musica dei Crowes,
regalando accenti rurali solo sfiorati in passato. L'album Warpaint
ne è una prova esemplare: dopo il passo falso di Lions e le prove soliste altalenanti
dei fratelli Robinson (per quanto This Magnificent Distance di Chris rimanga un
disco più che eccellente), riecco una band che gira a meraviglia, nella quale
pare tornata la serenità. Warpaint è un disco estremamente compatto, privo dei
guizzi imprevedibili che avevano contraddistinto i capolavori degli anni precedenti
ma ricco di spunti entusiasmanti, dalla cavalcate rock-blues Walk
believer walk ed Evergreen per
arrivare ai brani più pastorali ed intensi come Locust
street, a buon diritto rientrante fra le migliori composizioni del
gruppo, o la conclusiva Whoa mule, purissima
roots-music, delle migliori. Un grande ritorno. LIVE
RECORDS Live at the Greek (with Jimmy Page)[SPV,
2000] Live [V2,
2002]
Freak'n'roll...into
the fog [Eagle, 2006]
Warpaint: live [Eagle, 2009]
Una
delle componenti fondamentali dell'arte dei Black Crowes, come di ogni rock'n'roll
band che si rispetti, è costituita indubbiamente dal live act. Tuttavia, per avere
una testimonianza dei Corvi dal vivo degna della loro fama si è dovuto aspettare
fino al 2006 con l'uscita, sia in formato cd che in formato dvd, dello strepitoso
Freak'n'roll...into the fog, testimonianza della reunion con Marc
Ford (di breve durata) registrata al leggendario Fillmore West di San Francisco,
una vera e propria conscacrazione per i Corvi, ammessi nel tempio dei grandi degli
anni settanta. Non ci sono tracce (se non su bootleg) dei tour del periodo d'oro
della band, quello con Ford alla chitarra e Colt al basso, ed è un peccato perchè
dalle registrazioni pirata circolanti fra gli appassionati si può riconoscere
un gruppo al vertice della propria parabola artistica.
Il primo album
dal vivo è datato 2000 e vede i Black Crowes impegnati al fianco di Jimmy Page
nella rilettura di 20 classici del rock, provenienti quasi interamente dal
repertorio dei Led Zeppelin, con qualche incursione in territorio di standard
blues. Il risultato è una macchina infernale che gira divinamente e permette a
Jimmy Page di lanciarsi in cavalcate soliste esaltanti come non capitava dai tempi
in cui militava con Paul Rodgers nel progetto Firm, fra una torrenziale Lemon
song della durata di quasi nove minuti ed un'incendiaria versione di
Oh well, proveniente dalla geniale penna
di Peter Green. Le performance vocali di Chris Robinson sono spiritate ed entusiasmanti,
segno di un amore incontrovertibile e sfrenato per il repertorio interpretato,
mentre la band, spronata dall'opportunità di suonare con una leggenda del rock
si dimostra lontana anni luce da quel gruppo sulla via del tramonto che i solchi
di Lions sembravano mostrare.
Peccato però che il primo album dal vivo
vero e proprio dei Black Crowes, datato 2002 ed intitolato semplicemente Live,
sia una mezza delusione. Nella band sono entrati stabilmente Audley Freed e Steve
Pipien, anche se nè l'uno nè l'altro partecipano alle session di Lions. Il disco,
doppio, viene registrato a Boston nelle ultime due serate del tour del 2001, gli
ultimi concerti prima dello scioglimento, e vede all'opera un gruppo che procede
quasi per inerzia, senza la carica che ne aveva contraddistinto gli anni migliori.
A peggiorare la situazione si aggiunge una qualità di registrazione decisamente
scarsa, che penalizza ancor più l'ascolto.
Tutt'altra musica è invece
il già citato Freak'n'roll...into the fog, che vede all'opera una
band ricostituitasi da breve tempo e nella quale è stato reintegrato a pieno titolo
(anche se per poco) anche Marc Ford. Freak'n'roll è una testimonianza sontuosa
di un gruppo in cui è ritornata la voglia di suonare insieme e dimostrare di essere
ancora i migliori interpreti di rock'n'roll in circolazione. I brani si dilatano
in chilometriche jam, nelle quali le chitarre di Rich e di Ford tornano a ruggire
come ai tempi migliori. My morning song (quasi
quattordici minuti), Non fiction e Let
me share the ride (quasi dieci minuti a testa) sono perfette occasioni
per lanciarsi in improvvisazioni brucianti che non hanno nulla da invidiare ai
duelli di chitarre dei primi anni '90. Ad impreziosire il tutto si aggiungono
gli splendidi fiati dei Memphis Horns, che colorano di soul le solide architetture
musicali dei Corvi. A chiudere il cerchio arriva poi The
night they drove old dixie down, a ricordare, se mai ce ne fosse bisogno,
un legame mai rinnegato con le radici americane.
L'ultima testimonianza
live in ordine di tempo è datata 2009 e vede i Black Crowes rinnovati con l'ingresso
di Luther Dickinson. Warpaint: live è la fotografia di una band
in stato di grazia, con il nuovo arrivato che dà sfoggio di tutte le sue doti
chitarristiche, e che ha finalmente trovato la quadratura del cerchio, un suono
contemporaneamente antico e moderno. I legami con la tradizione sono riaffermati
potentemente nel secondo cd, nel quale troneggiano le cover di Torn
and frayed, il giusto tributo pagato agli Stones di Exile on main street,
e Poor Elijah e Don't
know why, a rivangare un inveterato amore per Deaney & Bonnie. Il primo
cd, invece, è una riproposizione integrale dell'album Warpaint, suonato con una
grinta ed una perfezione stilistica che nulla ha da invidiare alla versione in
studio e, anzi, vi aggiunge un sacro fuoco non sempre rintracciabile nelle versioni
originali, a testimonianza di un gruppo proiettato ad una maturità artistica fulgente.
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