The
Black Crowes La
fine della storia (una storia senza fine)
- a cura di Gianfranco Callieri
-
Questa è la storia di un fraintendimento. Nel
1989, quando il politologo statunitense Francis
Fukuyama teorizzò “la fine della storia” in un
saggio, dal titolo omonimo, assai discusso ma
fortunatissimo (nonché in seguito adottato come
vero e proprio manifesto da parte del capitalismo
teocon), il crollo del muro di Berlino e l’imminente
dissoluzione di ciò che era stata l’Unione Sovietica,
con conseguente interruzione (temporanea) della
Guerra Fredda, indussero molti osservatori a ritenere
fondata l’ipotesi di una graduale, incontrovertibile
affermazione del liberalismo in tutti i paesi
del mondo. Sebbene lo stesso Fukuyama abbia in
seguito più volte sconfessato interpretazioni
troppo semplicistiche delle sue tesi, trenta e
rotti anni fa l’idea di una propulsione storica
ormai inceppata per mancanza di alternative, e
quindi destinata a pietrificarsi in unico modello
di economia e società, sembrava se non altro abbastanza
verosimile. La fine della storia, appunto, o perlomeno
la fine del suo progredire, da cui l’inevitabile
appiattimento nell’assenza di alternative ideologiche,
sostituite dal recupero di vecchie congetture,
vecchi esperimenti, vecchie letture dell’agire
comunitario all’insegna dell’usato sicuro.
All’inizio dei ’90, in musica, stava accadendo
qualcosa di molto simile. Ancora lontani gli atlanti
urbani dell’elettronica inglese che, con l’avvento
di trip-hop, big beat e jungle,
avrebbero dato una scossa alle piste da ballo
di mezzo mondo, e non solo, mentre il punk cercava
di rivitalizzarsi tramite il movimento rivoluzionario
delle riot grrrl e le caratteristiche dell’hip-hop
si apprestavano a diventare un fenomeno globalizzato,
Neil Young si portava dietro i Sonic Youth, facendogli
aprire i suoi concerti e assordandone il pubblico
con tonnellate di feedback pressoché insostenibili
anche per gli ascoltatori più giovani, come a
rivendicare (ma con rispetto reciproco e senza
nessuna rivalità) la sua indiscutibile primogenitura
su un certo uso del “rumore”.
In questo contesto, i Black Crowes dei
fratelli Chris e Rich Robinson, originari di Atlanta,
Georgia, e già inseriti - un po’ forzatamente
- nel calderone sleaze di Guns N’ Roses,
Poison o Dangerous Toys all’epoca dei 5 milioni
di copie vendute dall’esordio Shake Your Money
Maker (1990), possedevano il perfetto physique
du rôle, reso ancor più efficace dalla dimensione
tardo hippie di alcuni loro testi e pose, per
interpretare il ruolo dei passatisti in fragorosa
opposizione al presente, di volta in volta ispirati
alle turbolenze degli Aerosmith o alle pastorali
rootsy di The Band, sempre e comunque orgogliosamente
estranei al proprio tempo. Nulla di più fuorviante.
Il secondo The Southern Harmony And Musical
Companion (1992) non era affatto la creatura
di un gruppo “reazionario”, né una celebrazione
dei bei tempi andati o un peana sulla sopravvivenza
del rock analogico: non era, insomma, la presa
d’atto della “fine della storia”, bensì la constatazione
di come il processo evolutivo del rock and roll
fosse, per sua natura, inesauribile, pronto a
contaminarsi e rinnovarsi con un linguaggio, ancora
una volta, scaturito “dal basso”, dalla provincia
e dalla strada.
Il composito alfabeto sonoro qui adottato dai
Corvi, infatti, non rispondeva ai criteri di alcuna
“dottrina del contenimento”, quella cioè che secondo
Fukuyama gli Stati Uniti avevano usato nei confronti
dell’URSS (impedendole di espandersi oltre i suoi
confini), traducibile dal punto di vista dei suoni
con un impiego consapevole di temi, scrittura
e strumentazione vintage, volti a respingere ogni
tentazione di svecchiamento o riforma; non si
limitava, pur prendendo in prestito il proprio
titolo da una raccolta di inni sacri risalente
a quasi 200 anni prima, a capitalizzare sullo
stile e gli arrangiamenti tipici di un’epoca ritenuta,
per definizione, più interessante e significativa
di una contemporaneità scadente. Al contrario,
The Southern Harmony And Musical Companion
mostrava quanto vasto e inafferrabile fosse il
continuo movimento del rock inteso come vocabolario
democratico e in perenne mutazione, dichiarava
di credere nella possibilità di contaminare e
rimescolare cento e passa anni di musica popolare
(non soltanto) americana in un contenitore immune
al vizio della nostalgia, esibiva sfrontato l’efficacia,
la modernità e l’espressività multiforme d’un
intreccio di rock confederato, folk, melodrammi
rockisti, fiammate funk, psichedelia e reggae
messo in scena con la forza inarrestabile della
giovinezza.
Non, quindi, la “fine della storia” e il conseguente
ripiegamento soggettivista in una batteria di
certezze antiche, ma la prova di come quella storia
- la storia ancora giovane del rock and roll -
potesse scrollarsi di dosso la polvere del tempo
in cui molti (troppi) l’avevano frettolosamente
relegata per riconfigurarsi, con estrema vitalità,
nella sua assenza di limite, nel fatto di riscoprirsi
storia senza fine o data di scadenza all’infuori
di quella costituita dall’entusiasmo e dall’irruenza
di chi ne maneggiasse gli attrezzi. Non la retrotopia
di cui parlerà il sociologo polacco Zygmunt Baumann,
ossia un’idealizzazione del passato nella quale
tutto è già accaduto, è accaduto meglio e non
può essere perfezionato: quella dei Black Crowes
è stata un’utopia al passo coi tempi, senza paura
di vivere il presente ma predisposta, anzi, alla
possibilità di guardare il futuro proprio partendo
da un’ampia conoscenza di quanto già successo
e adoperato, qui, per costruire un nuovo capitolo
della storia del rock, ammantato dell’innocenza
delle prime volte, in ogni paragrafo messo a ferro
e a fuoco da chi nutre la cognizione di come incendiare
i luoghi delle radici sia l’unico espediente possibile
per serbarne la fertilità.
The
Southern Harmony and Musical Companion [Super
Deluxe Edition - 3CD // 4LP, American/Universal
Music 2023]
Di nuovo presiedute, come nel debutto, dal newyorchese
George Drakoulias, che tra i produttori
dei ’90 propensi a manovrare la materia classic
- Rick Rubin, Brendan O’Brien, Matt Wallace etc.
- si dimostrerà quello di gran lunga più esperto
e originale, le registrazioni di The Southern
Harmony And Musical Companion, durate otto
giorni appena, partirono dal presupposto di chiarire
cosa pensasse la formazione in merito al grunge,
apprezzato, sì, ma ritenuto passibile di ulteriori
sovrapposizioni di codice basate sulla persistenza
delle suggestioni pertinenti l’immaginario archetipico
del rock, dalla sensualità del R&B al grido di
battaglia di chitarre fatte ululare come lupi
affamati, dalle fughe acide di certi passaggi
strumentali allo strazio sentimentale di esoteriche
serenate, dai viaggi nelle stelle delle ballate
più assorte a un istrionismo vocale in grado di
riassumere, e superare, un’intera genealogia di
shouter tra chiesa e postribolo.
Sostituita la sei corde di Jeff Cease con quella
ancor più affilata del navigato Marc Ford (Burning
Trees), assunto un organista a tempo pieno (Eddie
“Harsch” Hawrysch, in arrivo dalla band di James
Cotton) e chiesto qualcosa in più alle sfumature
delle proprie composizioni, in questa occasione
servite da arrangiamenti memorabili, i Corvi seppero
organizzare un lungo e movimentato apologo sugli
Stati Uniti del Sud, sulle terre dove sono nati
blues, country e r&r, sulle vecchie piantagioni
della Louisiana e le praterie del Texas, il tutto
fotografato con un accenno embrionale, ancora
in fase d’incubazione e ciò nondimeno notevole,
di quella propensione alla frustata funk poi fatta
saltare in aria nel successivo, ancora magnifico
Amorica (1994).
In questa nuova edizione, che celebra i trent’anni
del prototipo, la scaletta di The Southern
Harmony And Musical Companion, di suo
recante uno dei missaggi più scintillanti di tutti
i ’90, risplende di eloquenza e calore in un nuovo
mix semplicemente inarrivabile per pulizia, incisività
e vigore, perfetto sia nel sottolineare i riff
febbricitanti dell’iniziale Sting Me sia
nello scontornare l’abrasività dell’assolo di
chitarra (monumentale) con cui viene squarciata
la conclusione di Sometimes Salvation.
Le prestazioni canore di Chris Robinson, nell’esaltante
logorrea rock-blues di Remedy come nell’omaggio
al James Brown più luciferino (via Rod Stewart)
di una torrenziale Bad Luck Blue Eyes, Goodbye,
non hanno mai avuto un aspetto acustico così smagliante,
e lo stesso discorso vale per le unghiate metal
della poderosa No Speak No Slave, per il
rock sudista e fradicio di soul della carismatica
Hotel Illness, per la deragliata raucedine
elettroacustica di Thorn In My Pride (nelle
parole di Rich Robinson, un inchino alle lune
di mercurio attraversate da Nick Drake). Il gospel
cavernoso di My Morning Song e l’acquitrino
tentacolare, alla Tony Joe White, di Black
Moon Creeping, entrambe strepitose, continuano
a cedere il passo con naturalezza soprannaturale,
come se nel disco fossimo appena entrati e non
ci fossimo invece persi nelle sue spire da quasi
tre quarti d’ora, all’ultima Time Will Tell,
brano di Bob Marley inciso sul momento, in chiave
acustica, trapiantando le dancehall giamaicane
dell’autore in una parrocchia abbandonata della
campagna georgiana, col vento a sibilare tra la
marcedine delle assi in legno e a far vibrare
i vetri di finestre già parzialmente in frantumi.
Il secondo dei tre CD di cui si compone la Super
Deluxe Edition è invece dedicato a inediti,
rarità e versioni alternative, con due tracce
- una versione al ralenti di Sting Me e una spiritata
e caotica di 99 Pounds, classico country-soul
interpretato da Ann Peebles nel 1971 - già apparse
nella ristampa del ’98 e le restanti sette, se
la memoria non m’inganna, mai sentite prima, benché
i collezionisti e raccoglitori di bootleg saranno
di sicuro a conoscenza della rutilante, travolgente
Rainy Day Women No. 12 & 35 (Bob Dylan)
usata come terza traccia. Magari non saranno sorpresi
neanche dalla Boomer’s Story che, ispirata
alla rivisitazione del brano country di Carson
Jay Robinson data da Ry Cooder nel 1972 del disco
omonimo, brucia di slide e campagna, ma resteranno
altresì a bocca aperta davanti alla scurrile dolenza
stonesiana della lunga, rocciosa Miserable
(tra le più riuscite imitazioni del Mick Jagger
periodo Exile mai offerte dal maggiore
dei fratelli Robinson), ai proiettili country-blues
di Darling Of The Underground Press e alle
parafrasi aurorali di Bad Luck Blue Eyes, Goodbye,
Sometimes Salvation e Black Moon Creeping,
nessuna “rotonda” e riuscita come i prototipi,
tutte interessantissime nel loro apparire dure,
secche e violente neanche le avessero fabbricate
in ferramenta anziché in studio.
Stupendo, sul terzo CD, è infine il live texano
del 3 novembre 1993 in quel di Houston: un concentrato
di nitroglicerina aperto dal rifferama ottuso
di No Speak No Slave e dall’esorcismo rock-soul
di una torrida Sting Me, culminante nella
macelleria elettrica di una My Morning Song
da viaggio sulle montagne russe e negli incendiari
otto minuti di una Jam durante la quale viene
evocato a più riprese lo spirito degli Allman
Brothers, mandato in orbita dai 12’ di una Thorn
In My Pride presa a morsi dal soul, dal punk
e dagli Stones di Midnight Rambler, conclusa
dagli stacchi e dalle ripartenze al fulmicotone
di una Sometimes Salvation di antipasto
al selvaggio baccanale dell’ultima Remedy,
drogatissima altalena fra Leon Russell e sprazzi
di hardelia allucinata, un rituale cannibalesco
e in crescendo (menzione d’onore per la furia
della sezione ritmica incarnata dal basso di Johnny
Colt e dai tamburi di Steve Gorman) protratto
ben oltre i dieci minuti.
È vero, non avevamo bisogno delle integrazioni
di questa Super Deluxe Edition per riconoscere
la grandezza e la posizione cruciale di
The Southern Harmony And Musical Companion,
e di quei Black Crowes, all’interno della scena
rock degli anni ’90. Tutto il materiale aggiuntivo,
però, ha il merito di inquadrare con chiarezza
ancora maggiore le prerogative dell’album di allora,
che vide la luce, non dimentichiamolo, mentre
le televisioni americane si accingevano a trasmettere
le immagini del processo intentato, per il pestaggio
del tassista afroamericano Rodney King, contro
quattro agenti, bianchi, del dipartimento di polizia
di Los Angeles. Nel momento in cui vari disordini
iniziavano a diffondersi lungo entrambe le coste
della nazione, i Corvi inauguravano il loro secondo
disco con le parole If you feel like a riot,
then don’t you deny it (“Se avete voglia di
una rivolta, allora non negatevela”). Anche in
questo, nell’essere figlio del proprio tempo e
nel certificare quanto il rock potesse essere
ancora vivo, nervoso, proiettato nel cuore caotico
delle cose in atto, The Southern Harmony And
Musical Companion ha saputo dimostrarsi opera
centrale, punto d’arrivo e insieme stadio da cui
ripartire. Per dire, ancora una volta, che il
rock & roll non è morto né convalescente: è uno
stato mentale, un modo di essere e vivere. Forse
la vita stessa, della quale, in una storia senza
fine, continua a far parte.
Crowes'
Good Company Il
DNA musicale di Southern Harmony e le radici dei Black Crowes
- a cura di Fabio Cerbone -
Nella prima metà degli anni '90 la sensazione, irresistibile,
è quella di un generale “ritorno del rock”. Poco importa quanto
sia stata davvero reale e quanto il tempo possa oggi averla
collocata in un’altra prospettiva, gli avvenimenti vissuti
in diretta hanno comunque un altro sapore e nel 1992 The
Southern Harmony and Musical Companion partecipa di
diritto a questa eccitante fiammata, con le sue vendite milionarie,
i suoi dischi di platino e il primo posto nella classifica
di Billboard. Lo fa da una posizione singolare, persino “antagonista”
rispetto a ciò che circonda i ragazzi della Georgia, quella
di una southern band che fin dall’esordio si colloca
su un binario di presunto classicismo tratto direttamente
dagli anni Settanta, che sembra fare da contrappeso alla bolgia
alternative rock che avanza tra le nubi e la pioggia di Seattle.
Quel travolgente ritorno alle chitarre e alla stagione delle
grandi rock’n’roll band del passato è infatti cresciuto a
dismisura dopo l’esplosione del fenomeno grunge: Nirvana,
Pearl Jam, Soundgarden e compagnia - da angolazioni stilistiche
anche distanti ma con una fotografia d’insieme curata ad arte
dall’industria discografica - hanno rimesso al centro del
dibattito una formula rock che pesca a piene mani dall’epopea
dei seventies, sia essa il martello del suono heavy più pesante,
la compattezza dell’hard rock più tradizionale o persino la
ribellione istintiva del punk di fine decennio. Tutta la stampa
ha buon gioco nel contrapporre questa rinascenza elettrica
a quegli anni '80 che erano stati descritti come terreno di
caccia esclusivo del pop sintetico, dell’house music, della
nuova onda hip hop e delle mega-produzioni.
Con il senno di poi, sappiamo bene che non andò esattamente
così e che sotto le ceneri covavano già infinite declinazioni
e resistenze, ma adesso è la scusa per inondare anche il mainstream
musicale di suoni che per un decennio erano stati a pannaggio
dell’indipendenza più assoluta o quanto meno dei residui storici.
Persino i “grandi vecchi” (e pensare che allora erano soltanto
splendidi cinquantenni…) paiono beneficiare di questo riassetto,
uscendo da un periodo di affanni con rinnovato vigore e ispirazioni
che sembravano perdute (da Neil Young a Bob Dylan per arrivare
a Lou Reed, alcuni capolavori delle loro lunghe carriere escono
proprio in quegli anni). In questo clima di esaltazione e
di favorevole accoglienza del pubblico, i Black Crowes
offrono la loro personale versione del “ritorno al rock”,
un piede nel passato, un occhio al futuro, perché gli “altri
Settanta” a cui guardano dalla loro visuale di giovani uomini
cresciuti nel Deep South raccontano di un legame più
stretto con le cosidette radici, soprattutto con l’anima nera
da cui è sgorgato il fiume del rock’n’roll.
È una strada che passa dal country soul di Memphis, si impantana
nel blues e nel gospel del Mississippi, sconfina nel southern
rock dell’Alabama per tornare con il bottino pieno nella nativa
Georgia, anche se i fratelli Robinson è probabile che tutto
questo lo abbiano appreso, come tanti prima di loro, da qualche
ragazzo inglese che aveva studiato il suono dell’America meglio
degli originali. Senti dilagare le accordature aperte e i
riff dinamitardi di Rich Robinson e Marc Ford in Sting
Me e Remedy, primi fortunati singoli estratti dall'album,
e avverti il chiasso eccitante di gospel, soul e rock’n’roll
fusi in un’unico corpo, e capisci che The Southern Harmony
non avrebbe mai preso forma e sostanza senza la calata
dei Rolling Stones ai Muscle Shoals in Alabama, luogo dove
era stato in parte concepito Sticky Fingers, e men
che meno in quella villa francese di Nellcote da cui emerse
il magma sonoro di Exile on a Main St.
Lo si
era già capito agli esordi dei Black Crowes, con il botto
di Shake Your Money Maker, che la “questione britannica”
contava tanto quanto il rock di casa, ma ora che il suono
di The Southern Harmony esce più sfrenato e multiforme
al tempo stesso, le maglie del boogie si allargano, qualcosa
che i fratelli Robinson devono avere mandato a memoria imparando
ogni passaggio di Smokin’ degli Humble Pie oppure di
A Nod Is As Good As a Wink... to a Blind Horse dei
Faces, due band inglesi per sbaglio, una radice comune (quando
si facevano chiamare ancora Small Faces), sebbene dei primi
i Corvi della Georgia hanno sicuramente colto anche le dinamiche
più rootsy di un album dimenticato come Town & Country,
e dei secondi hanno attinto alle ballate del compianto Ronnie
Lane nell’epitaffio di Ooh La La, senza dimenticare
poi che Chris Robinson non canterebbe con quel trasporto rock
& soul se non avesse appreso al volo l’importanza degli album
solisti di un interprete come Rod Stewart, da Every Picture
Tells a Story in avanti.
Le trame elettro-acustiche di un piccolo capolavoro intitolato
Thorn in My Pride, o l’aria da rock rurale di Hotel
Hillness suggeriscono inoltre che da qualche parte lungo
il percorso si siano uniti alla festa dei Corvi anche The
Band (specialmente quelli del secondo omonimo album), i Grateful
Dead, che insieme ai Little Feat spargeranno i loro semi in
maniera persino più esponenziale da Amorica in avanti.
Certo, i Black Crowes restano una band sudista, anche quando
il loro orizzonte si espande da New York alla California e
volutamente rinuncia a molti simboli scomodi e luoghi comuni
del Vecchio Sud, e allora ricordargli ogni volta lo stretto
legame con i Lynyrd Skynyrd (magari quelli di Second Helping)
potrà pure irritarli (perché in fondo sono già molto distanti
da quel modello durante l’incisione stessa di Southern
Harmony), ma rimane un’impronta che dice tanto della storia
personale che si portano appresso, anche quando il loro obiettivo
musicale, proprio a partire da questo album, sembra mirare
più al cielo psichedelico e alle jam dell’Allman Brothers
Band, un riferimento che soprattutto nella trasposizione dal
vivo dei brani rappresenterà sempre un’ombra costante.
Qui tuttavia, sarà la ferocia hard blues della chitarra solista
di Marc Ford che ci assale, sono ancora i Led Zeppelin (e
la Gibson di Jimmy Page, con il quale finiranno per suonare
dal vivo in tour celebrativo) a fare capolino fra le bordate
di No Speak No Slave e My Morning Song, a grandi
linee quegli stessi Zep che dalle radici blues del celebrato
album II migrano verso i mari impetuosi di III
e IV, in un tumulto rock’n’roll che nel caso dei Black
Crowes provoca letteralmente scintille nell’attrito con la
matrice gospel & soul (quei cori femminili sparsi in lungo
e in largo e l’organo del nuovo arrivato Eddie Harsch). Se
Black Moon Creeping rappresenta la dimensione più epidermica
e incandescente di questo incontro, è altrettanto chiaro che
il volto da ballad di Bad Luck Blue Eyes Goodbye e
di una più parossistica Sometimes Salvation ci rammenta
una volta di più che nel loro debutto di due anni prima erano
partiti da una cover di Hard to Handle di Otis Redding,
il cui Otis Blue e l’intera leggenda di casa Stax servono
ai Black Crowes per ricordare a tutti che le loro facce saranno
anche bianche come il latte ma la loro voce interiore (e non
solo quella, come aveva dimostrato l’Eddie Hinton di Very
Extremely Dangerous) e di conseguenza tutto l’equipaggiamento
del loro rock’n’roll è trafitto da una blackness mai
così pronunciata, che solamente una chiusura come Time
Will Tell, brano di Bob Marley tratto da Kaya, innervato
da un inedito fermento country gospel, può sancire senza infingimenti.
Percorso discografico:
Otis Redding, Otis Blue/Otis Redding Sings Soul, 1965
The Band, The Band, 1969
Humble Pie, Town & Country, 1969
Led Zeppelin, III, 1970
The Grateful Dead, Workingman’s Dead, 1970
Allman Brothers Band, Live at Fillmore East, 1971
The Rolling Stones, Sticky Fingers, 1971
Faces, A Nod Is As Good As a Wink... to a Blind Horse,
1971
Rod Stewart, Every Picture Tells a Story, 1971
Led Zeppelin, IV, 1971
The Rolling Stones, Exile on Main St., 1972
Humble Pie, Smokin’, 1972
Little Feat, Sailin’ Shoes, 1972
Faces, Ooh La La, 1973
Lynyrd Skynyrd, Second Helping, 1974
Eddie Hinton, Very Extremely Dangerous, 1978
Bob Marley & The Wailers, Kaya, 1978