Cesare Carugi
Pontchartrain
[Roots Music Club/ IRD  2013]

www.cesarecarugi.com

File Under: my american dream

di Fabio Cerbone (20/09/2013)


Periferie e strade si somigliano un po' dappertutto, i sogni (quelli che ci sono rimasti o che ci hanno lasciato) pure, ecco perché la musica di Cesare Carugi non merita affatto di essere liquidata come semplice riproduzione di un immaginario: luoghi e sonorità parlano americano, certo - a cominciare da un titolo suggestivo come Pontchartrain, lago della Louisiana sull'estuario del Mississippi - ma il talento di rielaborarli con una propria personalità è tutto appannaggio di Cesare, che conferma e persino rilancia quanto di promettente si erà già intuito dalla pubblicazione del suo esordio sulla distanza, Here's to the Road. In quel piccolo e agguerrito movimento (o scena, fate voi, se avvertite il senso e l'urgenza di quest'ultima) che potremmo definire la terra "Americana" in Italia, lui rimane senz'altro uno dei più credibili testimoni: per la qualità e la cura delle canzoni, per un non indifferente modo di interpretarle, per l'idea che quell'immaginario di cui sopra lo si possa rendere senza l'effetto di una cartolina (anche la scelta della copertina pare questa volta più azzeccata).

Pontchartrain in tal senso è anche più peculiare del suo predecessore, una messa a fuoco dello stile di Carugi: ballate umide e intense che danzano sul confine tra il folk rock di marca tradizionale americana e una vena melodica mai sopita, sprazzi di rock d'autore e cadenze blues che trovano nella cura dei suoni e nella giusta direzione dei musicisti coinvolti la carta vincente per rendere Carry the Torch o Long Nights Awake testimonianze sincere di questa storia. Diversi infatti gli ospiti ad arricchire l'offerta di Pontchartrain, mai tuttavia a rischio di offuscare il carattere del protagonista: la chitarra di Paolo Bonfanti in una Troubled Waters che ha il passo del migliore John Hiatt eletttrico, Francesco Piu nell'incalzante Pontchartrain Shuffle, tre quarti dei Mojo Filter nella chiusura piovigginosa e malinconica di We'll Meet Again Someday. Senza trascurare in ogni caso la regolare backing band di Cesare Carugi, con le chitarre di Leonardo Ceccanti come appiglio sicuro di una collaborazione rodata da anni. Al resto ci pensa la voce di Cesare, un'arma in più per intensità e convinzione, in grado di tradurre le visioni americane in qualcosa che appartiene solamente al suo stato d'animo: sia quando prende a prestito impressioni cinetografiche (la liquida carezza di Charley Varrick in duetto con Marialaura Specchia), sia quando la forma ballata si allarga alle note drammatiche di Morning Came Early Today.

Tutta la prima parte e oltre di Pontchartrain predilige queste mezze tinte, i chiaroscuri di una ballata rootsy che evita l'impatto diretto: Drive the Cross Away chiude il cerchio con l'accogliente violino di Chiara Giacobbe e sancisce forse l'esigenza di Cesare Carugi di non colpire con l'effetto plateale, ma di lasciar sbocciare i suoi brani con pazienza. Forse per questo motivo gli unici episodi che convincono di meno (più per l'uniformità del disco, che non per il loro valore in sé, sia chiaro) restano la cruda fantasia rock'n'roll di Crack in the Ground e il notturno blues celebrato in My Drunken Valentine, sulla falsariga di un Tom Waits lupo mannaro ai tempi di Heartattack and Vine. Arriva l'intreccio di piano e sax di una romantica e densamente sprinsgsteeniana When the Silence Breaks Through (Cesare ha peraltro collaborato con Micheal McDermott in passato e certi percorsi tendono a incontrarsi a metà strada) a riportare l'ago della bilancia verso le distese della ballad d'autore, prima che il finale della citata We'll Meet Again Someday, docile e indolente, rimetta sogni e speranze in carreggiata.



    

 


<Credits>