inserito 13/10/2008


Stoop Stoopid Monkeys in the House [Prismo Paco 2008] 7
The Softone These Days Are Blue [Awful_Bliss  2008] 6.5
The Groovers Revolution [Fandango/ Audioglobe 2008] 6

Restando agganciati al treno di un rock che sappia suonare classico ma al tempo stesso sottilmente legato alle regole dell'indie rock contemporaneo, molto interessane si fa la proposta degli emiliani Stoop. Il loro esordio Stoopid Monkeys in the House riesce nella difficile mediazione di cui sopra, soprattutto reggendosi sulla profondità degli arrangiamenti e la ricchezza di idee che fanno confluire nelle loro canzoni mille influssi, qualcosa che attraversa gli ultimi trent'anni di rock'n'roll incrociando new wave, alternative rock, folk a bassa fedeltà, persino reminiscenze western alla Calexico. Qualcosa che li colloca idealmente fra Wilco, Beck e i Cake, se proprio vogliamo scomodare affinità contemporanee, ma con una personalità ben definita. Costruito su ritmi sghembi che passano da radici garage a ballate più surreali, Stoopid Monkeys in the House non è immediato, ma svela strada facendo le sue sfaccettature, merito di un quartetto (Diego Bertani alle chitarre e voce, Carlo Enrico Pinna alle chitarre e synth, Fabrizio Bertani alla batteria, Marco Ponzi al basso) che si apre a diversi interventi, inglobando nel sound tromba, trombone e steel guitar. Difficile catturare un momento specifico, perché Stoopid Monkeys in the House lavora dall'interno del ritmo e scava nelle trame di un rock intelligente e pieno di richiami: Fire On My Cheap Sunburn potrebbe persino farli passare per revivalisti delle prima onda post punk, ma poi arivano Sleeping Awake, la convulsa Chupacabras & Fries, il folk stralunato di Garbage In Space e della bellissima Lesson#2 a scompaginare le certezze. Qualcuno si è già accorto di loro (premiati al Diesel-U-Music-Awards in Inghilterra da Ron Wood in persona e vincitori dell'Heineken Jammin' Contest nel 2005), ma pare ormai che oggi non bastino neppure i santi in paradiso per imporsi con la sola qualità della propria musica. Da tenere d'occhio.
(Fabio Cerbone)

www.myspace.com/stoopmusic

Hanno dimostrato grande coraggio i napoletani Softone nel produrre questo These Days Are Blue: avventurarsi nel difficile e affollato terreno dell' indie-folk internazionale è impresa per pochi nelle nostre terre, soprattutto in un momento in cui il cosìdetto '"indie italiano" non anglofono sta vivendo una fase di fermento tale da essere infinitamente più remunerativo in termini di consensi e notorietà. Loro invece scelgono l'ardua via di coniugare i Beatles più maccartiani (Hello and Say Goodbye, che vede la partecipazione del siriano-statunitense Faris Nourallah) con il minimalismo sonoro di tutta la scena indipendente recente, di mischiare archi e barocchismi europei (Promises) con i tentativi più sperimentali del "mondo roots" più progressivo (The Light potrebbe uscire dal cappello dei Wilco, All My Days sa di un Howe Gelb particolarmente depresso). Al cantante (e autore di tutti brani) Giovanni Vicinanza si potrebbe dare anche del follemente pretenzioso, e forse quando in Having A Coffee cerca la perfetta pop-song uggiosa che non riesce più ai Coldplay, sopravvaluta le proprie forze, così come a volte esagera nel calcare l'effetto notturno della propria musica (Close Your Eyes). Ma per uscire soddisfatti dalle trame slow-core di Dear Mercy non serve dover usare il fastidioso preambolo "bravi…per essere degli italiani", così come stanno in piedi da sole la bluesata From The Backyard o la semplice folk-song di You Could Change My Life. Vicinanza, per evitare scivoloni nel provincialismo, ha voluto registrare il disco negli Stati Uniti, lontano dalle trappole di una dizione inglese maccheronica, e relegando all'azzurrino della copertina l'unico possibile riferimento alle loro origini partenopee. Non sappiamo se questo basterà a farli uscire dai nostri confini, sicuramente è sufficiente a farli mettere nella nostra serra di rose che potrebbero fiorire con il tempo.
(Nicola Gervasini)

www.myspace.com/thesoftone



Sottotitolato non a caso A handful of songs about our times vol.2, Revolution si riallaccia dunque concretamente al precedente lavoro dei Groovers. Innanzi tutto lo fa tematicamente, provando una volta di più a spiattellare in faccia la rabbia, le frustrazioni ma anche le speranze degli esclusi e soprattutto di una famigerata "classe operaia" che nessuno vorrebbe più vedere tra i piedi perchè scomoda (Old Rebel Tune). In seconda battuta lo fa musicalmente, visto che il predecessore decretò una svolta artistica importante per il gruppo di Michele Anelli, orgogliosamente in strada dal 1989, come recita anche la dicitura sul retro del nuovo cd. Allora si scomodarono interessanti accostamenti con l'estetica lo-fi di certo indie rock americano di oggi, un suono che non rinnegava il passato fieramente "operaio" della band, ma rivisto e ampliato anche alla luce della fertile collaborazione con Evasio Muraro (Settore Out). Stabilmente assestati nella formazione a quattro con il rientro del membro storico Paolo Montanari (tastiere) e Massimiliano Ferraro (batteria), i Groovers di Revolution sembrano fare un passo indietro per compierne in realtà uno in avanti. Riacquistato infatti un timbro garage rock più acceso, che sembra rispolverare i loro esordi, la band propone un suono più cupo e densamente elettrico, che tuttavia funziona solo a tratti e sembra sfilacciarsi un poco nel mediare le due anime. Ineccepibile la voglia di muoversi dentro la propria storia senza ripetersi, ma se il sinuoso movimento di Gimme a Revolution riconduce immediatamente al recente passato, alcune vie di mezzo quali Workin' Days, No Time to Lose, The Fire appaiono desiderose di una messa fuoco, anche nell'interpretazione vocale di Michele Anelli (che appare decisamente in affanno soprattutto in Sometimes). Meglio dunque abbracciare platealmente il battito del rock'n'roll con Tell me e This Guitar, già pronte ad una possibile esplosione dal vivo. I Groovers avevano probabilmente voglia di riportare al centro le chitarre così come le loro radici rock, sono rimasti a metà del guado.
(Fabio Cerbone)

www.thegroovers.net


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