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southern roots di
Marco Poggio (14/11/2014)
The
Coming Tide, suo esordio, lo scorso anno, per la chicagoana Bloodshot
Records, ma in realtà terzo lavoro a proprio nome, era stato il classico "fulmine
a ciel sereno", capace di guadagnarsi il plauso di larga parte della critica.
D'altronde il chitarrista, songwriter di Cadillac, Michigan, ma da tempo trapiantato
in quel di New Orleans, aveva dimostrato, fin dai primi parti solistici, di saper
mescolare, con gusto e padronanza, stilemi musicali tra i più disparati, appartenenti
alla tradizione afroamericana. E se al principio era alquanto marcata l'influenza
di quel fervente crogiuolo musicale che è tutt'oggi la città della Louisiana,
con The Coming Tide, il nostro aveva ulteriormente arricchito la propria, personale
miscela con bucolici squarci melodici, in odore di Americana, e gli stridori del
blues deltaico, in un percorso di riscoperta condotto parallelamente ad una crescita
autoriale ed interpretativa oggi giunta alla sua definitiva maturazione.
Anzi,
con l'odierno Everlasting Arms, Winslow-King si appropria di nuove,
e ben più elettriche, sonorità, dimostrando un insaziabile appetito musicale.
Registrato in quattro differenti studi, tra i quali i familiari Piety Street di
New Orleans e il Jambona Lab di Livorno, dove ha impresso su nastro il proprio
contributo il "nostro" Roberto Luti, Everlasting Arms è, senza dubbio, la testimonianza
perfetta dell'attuale modus operandi del chitarrista. Punti focali erano e rimangono,
per l'appunto, la sua sei corde, sia essa una vecchia resofonica che una sua più
moderna "discendente"; ed una vellutata voce, da troubadour, legata armonicamente,
a più riprese, con quella della consorte Esther Rose, qui nuovamente impegnata
ad accentuare la spigliatezza ritmica dell'intero lavoro, dividendosi tra washboard
e un "inconsueto" ferro di cavallo. Vedono la luce in tal modo piccole delizie
come I'm Your Levee Man, dove si avverte l'eco
dell'orgiastica esuberanza dixieland della Creole Jazz Band di King Oliver, o
la title track, dall'afflato gospel, riuscito reprise dell'omonima composizione
di Anthony J. Showalter.
Di ben maggior grana elettrica sono invece la
tellurica Swing That Thing, dove l'hill country
blues di RL Burnside incontra il Diddley-sound urbano di Elias Bates McDaniel,
una Cadillac Slim tra rimandi al rhythm and
blues marchiato Stax ed intrecci vocali doo wop, e il sincopare sudista di una
Domino Sugar figlia "illegittima" tanto dei Black Crowes che degli Stones
di Sticky Fingers. Con la percussiva briosità caraibica di La Bega's Carousel,
ci si immerge invece nel selvaggio "suono delle giungla" dell'orchestra del "Duca",
per poi passare, in Home Blues, al caracollare
jazzy di quella di Cab Calloway, mentre con il lancinante scorrere del bottleneck
della conclusiva Traveling Myself si torna
sulle colline in un ideale tributo all'arte di Mississippi Fred McDowell. Ancora
una volta Luke Winslow-King ha saputo dimostrare come sia possibile rileggere
il passato senza, al contempo, perdere nulla della propria originalità, ed Everlasting
Arms ne è la prova più che tangibile.