Luke Tuchscherer
Pieces
[
Clubhouse 2018]

luketuchscherer.co.uk

File Under: country rock 70s vibe

di Pie Cantoni
(12/07/2018)

Parte con una forte vibrazione 70s, chitarre sparate e organo a tessere il tappeto sonoro sul quale inizia il terzo disco, Pieces, di Luke Tuchscherer (pronounced :Tuck-Shearer). Originario dell'isoletta nota un tempo come Albione, ora residente nella non meno perfida ma sicuramente più scintillante New York City, Luke è al terzo disco, dopo il precedente Always Be True del 2017 sempre con l'etichetta Clubhouse Records e l'esordio solista con You Get So Alone At Times That It Just Makes Sense del 2014. Se nei primi dischi il genere più esplorato era un'Americana tradizionale, screziata di country, in questo terzo lavoro si lascia ampio spazio a rock anni '70, influenze più heavy e contemporanee.

Il primo brano Sudden Gateway richiama molto il Neil Young anni '70 in coppia con Frank Sampedro, con un assolo distorto e ruvido, la seconda canzone della tracklist, Company Girl (Needs a Company Man) si avvicina all'esperienza di Warren Haynes con i Railroad Earth, anche dal punto di vista di una chitarra più virtuosa e ritmi heavy rock. The MF Blues (dove MF sta per motherfuckin') è un heavy boogie anche qui a forti tinte seventies, organo sempre in bella evidenza. Il risultato è interessante, anche se molto di maniera. Mentre Ain't That What they Say? paga tributo ad un rock americano più classico, fra Tom Petty e gruppi della tradizione country rock americana, fra Counting Crows e Uncle Tupelo. Prende il nome da una stazione di Londra, Charing Cross, il primo brano del disco a rientrare nel solco dei precedenti lavori. Chitarra, organo e pianoforte sono le basi per una ballata che non lascia il segno, ma chiude con una bella coda strumentale. Un po' troppo springsteeniana, Batten Down the Hatches, ha proprio il piglio di un pezzo del Boss: struttura, dinamiche, suoni, tutto ricordano il più illustre cittadino del New Jersey. De gustibus non est disputandum è vero, certo noi preferiamo gli omaggi velati e le sfumature, non le copie carbone.

Scivolata pesante è Requiem, testo infarcito di qualche banalità egualitaria sulla sua visione del mondo e sull'economia (meglio tralasciare i commenti, in tempi in cui assistenti al San Paolo durante le partite del Napoli diventano ministri dell'economia….): il pezzo gira zoppicante, fra l'incedere di chitarra alla Neil Young (anche qui, proprio proprio alla Neil Young...), la voce poca convinta e artificiosamente carica di pathos. Si riprende invece nel finale con la title track Pieces e la ballad See You When I See You, non stellari ma due buoni episodi a concludere il tutto. Luke Tuchsherer si scrolla di dosso l'etichetta country per tirare fuori i "muscoli" (chitarristicamente parlando), sparando in alto il volume e strizzando l'occhio al blues e all'hard rock di stampo 70s. Non del tutto convincente ma a tratti piacevole e godibile. Forse pecca in originalità, sua lacuna anche nei precedenti dischi e grande difetto di molti degli artisti contemporanei, ma si apre la strada verso nuovi orizzonti che avremo il piacere di ascoltare in futuro.


    


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