Togliamoci subito il pensiero di quel nome, tanto
glielo avranno fatto notare tutti: l’abbreviazione è probabile che sia
stata una scelta obbligata per questo folksinger canadese di Calgary,
stato dell’Alberta, perché se ti presenti in pubblico come Tim Buckley,
anche inconsapevolmente le aspettative aumentano e poi succede che la
delusione è dietro l’angolo. Non che lui si sia spinto troppo lontano:
un semplice T. Buckley, come a dire che alla fine lo dobbiamo accettare
per quello che è, un interessante songwriter dalla vena country folk e
con accenti rock melodici che nulla ha in comune con l’ombra (ingombrante)
del suo omonimo americano.
Frame by Frame è il quinto episodio in carriera a partire
dall’esordio del 2011, Roll On, mettendo nel conto anche due dischi
incisi come T. Buckley Trio, che gli sono valsi una discreta attenzione
sulla scena nazionale e qualche passaggio radiofonico tra le stazioni
di settore country. Tuttavia, il cuore della sua musica andrebbe piuttosto
definito come folk rock d’autore, con diramazioni roots, profumi West
Coast e anche una certa qualità pop nella voce e negli arrangiamenti,
che rendono questo Frame by Frame un disco indipendente ma con
tutte le qualità sonore di un prodotto da major discografica. Inciso negli
studi di Calgary con la produzione di Jeff Kynoch - musicista esperto
che si porta dietro una manciata di ottimi collaboratori, tra i quali
emergono l’organo Hammond e il piano di Steve Fletcher e le chitarre,
pedal steel, banjo e dobro di Mitch Jay - l’album strizza l’occhio al
suono del country rock texano con l’apertura di Wildfire,
tra i brani più vivaci in scaletta, eppure tra i meno rappresentativi,
preferendo il nostro Buckley canadese muoversi sui sentieri elettro-acustici
eleganti e aggraziati di una Father’s Child composta insieme al
collega John
Wort Hannam e che mi ha ricordato lo stile del compianto Neal
Casal.
Sono anche i momenti nei quali Frame by Frame, con il suo songwriting
così introspettivo, interessato a raccontare storie di amore e comunità,
colpisce di più nel segno, esaltando le qualità dell’interpretazione di
Buckley. Tra questi ultimi si segnalano il dolce picking di Holding
My Place e della stessa title track, con note avvolgenti di
steel guitar e mandolino, o ancora il finale a braccetto di armonica e
dobro in After You Go Back, mentre Settler’s Town e Solid
Ground sono canzoni che si fanno più delicate nella ricerca melodica,
e forse si lasciano scappare anche una certa “maniera”, la stessa che
aleggia un po’ su tutta la struttura di Frame by Frame, tuttavia
senza mai eccedere. D’altronde, che T. Buckley abbia una facilità pop
di scrittura è innegabile e neppure si può nascondere che questa funzioni
discretamente: infatti, Before I Get to Turn Around è una ballata
elettrica, gradevolmente radiofonica, che conquista con il suo agrodolce
sound e che bene si abbina con la “gemella” Marylin, altro episodio
che spinge su questa linea di pensiero musiscale, evocando i connazionali
Blue Rodeo nei loro passaggi più melodici.