Lucky Bones
Someone's Son
[
Lucky Bones Promotions
2013]

www.luckybonesmusic.com


File Under: irish americana

di Fabio Cerbone (18/07/2013)

La seconda calata in terra texana di Eamonn O'Connor, songwriter di Dublino con una manifesta passione per il suono rock americano più tradizionale, parte esattamente da dove si era interrotta in Together We Are All Alone, vero e proprio esordio sotto lo pseudonimo Lucky Bones. Stesso produttore, Stephen Ceresia, stessi studi di Bastrop, a poche miglia da Austin, una simile visione musicale che mette insieme il "prevedibile" lirismo folk d'Irlanda con le rotonditą di un pop rock di bella fattura, dove radici americane, senso della tradizione dei migliori storyteller e una indiscutibile malinconia di fondo segnano l'intero repertorio di Someone's Son. Curatissima la confezione cartonata e affascinante l'artwork con le foto di Amanda Elmore, che ritraggono street art e graffiti dall'evidente messaggio sociale, qui sublimato dal brano Born To a Holy Land, uno dei pił elettrici e inquieti della raccolta.

Dunque, non solo uno sguardo introspettivo e agrodolce per le ballate di Lucky Bones, spesso adagiato su tonalitą morbide e crepuscolari che ricordano l'illustre dirimpettaio britannico David Gray e in parte il Ryan Adams di Love is Hell, ma anche qualche apertura verso il mondo, la poesia della strada, che affiora nella stessa Someone's Son e Forever With Wings, tratteggiando ballate d'amore agitate, luoghi oscuri e domande irrisolte a cominciare da She Don't Know. Sound delicato e sentimentale quello della band nell'episodio appena citato, radiografia di uno stile che cavalca un folk rock da tramonto e si strugge alla ricerca della melodia pop pił leggiadra e tristanzuola. Accade ad esempio nella dolcissima Broken Love Song, terreno per il piano elegiaco di Conor Milley, elemento essenziale della struttura Lucky Bones insieme alle chitarre di Peter O'Grady e dello stesso O'Connor, che sembra avere fatto tesoro dei mesi trascorsi in tour, rafforzando l'intesa del gruppo in un suono riconoscibile e pienamente formato.

Nessuna vistosa sorpresa, certo, eppure usciamo dal seminato del solito, accomodante songwriting di ispirazione roots, nella direzione invece di quel celtic soul che si rotola sulla strada americana ma non dimentica le sue origini e persino i suoi accenti brit-pop: ecco allora la trepidante Fault, per piano e slide guitar, un brano che avrebbero potuto scrivere i Coldplay se non fossero presto affogati in un mare di pretenziosa grandeur, o ancora la tenue armonia di Won't Be Coming Home, anticipazione di una finale che pare ritrovare la via di Dublino, tra la soffusa filastrocca di Who's Gonna Follow Me Down e il fiddle di Sean Orr a infondere la melodia di una The Usual Places, che riporta immediatamente al "blues del pescatore" di Mike Scott e dei suoi Waterboys. Un autore che rimanda, occhieggia, evoca ma ha il raro dono di non sembrare mai una copia sbiadita: manca ancora un po' di convinzione e rabbia per diventare uno da seguire ad ogni costo, quello capace insomma di infilare un brano memorabile, un dato che ancora manca all'appello di Someone's Son.



<Credits>