Curiosi oggetti di retromania rock prima ancora che se ne parlasse con critiche
approfondite, i californiani Beachwood Sparks hanno a modo loro anticipato
i tempi, raccogliendo forse meno frutti artistici di quanto meritato. Nel 2012
sono persino tornati dopo anni di silenzio discografico, con l'irrisolto The
Tarnished Gold, ma senza fare troppo rumore. In fondo, se la riscoperta
di un certo suono West Coast e il rilancio di tutto un affascinante universo a
cavallo tra psichedelia e country rock nel Laurel Canyon ha preso piede in stagioni
recenti, dal successo indipendente di Fleet Foxes e Jonathan Wilson a band meno
conosciute eppure apprezzabilissime come Parson Red Heads o Moondoggies, qualche
merito va ascritto anche a questi signori. E' forse in questo clima di crescente
entusiasmo che un disco come Desert Skies trova la via della pubblicazione,
scavando nella memoria del gruppo, quando la scena di Los Angeles sul finire degli
anni 90 non aveva ancora un baricentro e il gusto medio del pubblico alternative
rock doveva trovare nuovi lidi su cui approdare.
Registrato nello scantinato
di casa dei fondatori Brent Rademaker e Josh Schartz tra la fine del 1997 e i
primi mesi del 1998, Desert Skies è ufficialmente il primo vagito discografico
dei Beachwood Sparls, prima insomma che firmassero per la prestigiosa Sub Pop
(Rough Trade sul mercato europeo) e dessero alla stampe l'omonimo esordio, ma
soprattutto il celebrato Once We Were Trees, ancora oggi piccolo gioiello di lisergico
country elettrico dalle movenze "cosmiche", in coda a Byrds, Gram Parsons
e Buffalo Spsingfield come santa triade di riferimento. Qui invece siamo agli
albori della formazione, nata dalle ceneri dei misconosciuti Further, per iniziativa
del citato Rademaker e Chris Gunst e subito allargata al talento di Farmer Dave
Scher. Saranno questi ultimi a tenere le redini del progetto negli anni successivi,
riducendosi a quartetto con l'entrata di Aaron Sperske, mentre Desert Skies assembla
la bellezza di sei elementi e un sound che mostra in divenire le influenze della
band.
Qualche scampolo di canzone finirà nel loro esordio del 2000, ma
siamo ancora distanti dalla perfezione degli episodi migliori: qui i primi due
singoli, la title track e Make It Together,
pubblicati al tempo per la Bomp! di Greg Shaw, scartabellano tra chitarre acide
e melode power pop, ricordando da vicino gli eroi di culto Teenage Fanclub, mentre
Time e Sweet Julie
Ann sembrano una lunga coda della nuova psichedelia che appartenne
al Paisley Underground, con Rain Parade e True West come maestri di strada. Una
versione più garage e colorita, se volete, di certo alternative country in voga
all'epoca (non sono distanti i Jayhakws della seconda era o alcune uscite del
supergruppo Golden Smog), ma senza dubbio imprecisa e variopinta come richiede
la biografia californiana dei Beachwood Sparks. Interessante dunque, anche se
non strettamente necessario, il ripescaggio effettuato dalla Alive!, per quanto
i colori sixties di Watery Moolight e l'epica acida di Canyon
Ride suonino troppo ingenue nell'insieme e nel finale l'album si sfilacci
non poco, proponendo versioni alternative della stessa Desert Skies. Solo
per i più ostinati curiosi e gli affezionati di genere.