Willy Mason
Carry On
[Polydor/ Universal
2013]

www.willymason.net


File Under: folk beats

di Fabio Cerbone (18/01/2013)

Era partito con i migliori auspici il viaggio di Willy Mason nella moderna canzone folk americana, un ragazzotto giovanissimo, allora dicianovenne, dell'isola di Martha's Vineyard, che con un colpo di fortuna e una buona dose di talento aveva azzeccato la canzone da ko, Oxygen, destando le attenzioni di qualche collega curioso (Bright Eyes, che se lo portò in casa facendolo debuttare nel 2004 per la Team Love) e acciuffando i giusti passaggi radiofonici. Where the Humans Eat, l'esordio, era la più bilanciata modernizzazione che si potesse ipotizzare del linguaggio country blues, adattamento alla sensibilità fragile dell'indie folk anni 2000 della lezione di leadbelly, Robert Johnson e magari Woody Guthrie, visto il viso pallido di Mason. Da allora un contratto con la Virgin, quindi la distribuzione internazionale per la Emi, un secondo disco più ambizioso finito presto nel dimenticatoio (If the Ocean Gets Rough) e la sensazione che per Willy Mason fosse già finito il tempo a disposizione.

Carry On rimette in circolo il suo nome dopo cinque anni di silenzio e ritiro forzato, con un cambio di umori e soprattutto di intenzioni negli arrangiamenti, che coraggiosamente provano a fare piazza pulita del passato. L'idea è ottima e anche se l'esito non sempre riesce a mascherare una certa involuzione compositiva, conduce Mason verso nuovi lidi sonori, senza per questo rinnegare le sue radici di folksinger. La produzione londinese di Dan Carey (uno che ha lavorato con Hot Hip e Kylie Minigue, per capirne la formazione) non si preoccupa di "scadalizzare" e costringere i lamenti acustici di Mason dentro una maglia stretta di pulsioni ritmiche moderne, che passano dallo scheletro ossuto di What is This ad una Pickup Truck che piacerebbe al Mark Everett (Eels) più inquieto, procedendo attraverso le percussioni e il falsetto dolcissimo di Talk me Down e finendo dritte nel battito dub di una Restless Fugitive che mette insieme echi blues e psichedelia.

Carry On è in tal senso un disco più scuro e zigzagante del previsto, asciutto come si conviene ad un songwriter che mette insieme il senso della tragedia e della narrazione tipico dei suoi miti (dal citato Guthrie a Bob Dylan via Johnny cash, le ombre si percepiscono tutte quante), ma anche disposto a farsi trascinare in viaggi onirici (Painted Glass), alternando poi filastrocche folk come I Got Gold con ballate più immaginifiche e fluttuanti (Shadows in the Dark, If It's te End), che sono la dimostrazione di questa nuova disposizione d'animo, ma anche di uno stile che pare affiancarlo senza remore ai vari Will Oldham, Damien Jurado o Richard Buckner. Insomma, quella terra desolata di storyteller che cercano insistentemente nuove visioni poetiche pur restando dentro la tradizione.


    


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