Da
più parti si è letto di un ritorno di Matthew Houck, in arte Phosphorescent,
ad un certo "sperimentalismo" sonoro applicato alle sue ballate, qualcosa che
lo riportasse alle tensioni a bassa fedeltà degli esordi, a quel periodo di folk
stralunato e po' freak che aveva scomodato paragoni insostenibili con Will Oldham
e tutta la nuova generazione di tormentati foksinger americani. Quel momento artistico
sembrava ormai alle spalle, prima con l'interlocutorio (ma rivelatore) tributo
alla musica di Willie Nelson (To Willie), quindi con il piccolo capolavoro
personale di Here's
To Taking It Easy, album di apertura verso il "classico", omaggio o
meglio fascinazione per il country rock dei seventies e in particolar modo per
il linguaggio di Neil Young. Difficile pensare che Muchacho, pur
con tutta la stravaganza del titolo e di alcuni suoi passaggi, sia un ritorno
nel guscio. Ecco perché ci appare più come un punto di approdo del suo percorso
artistico che non un passo indietro verso le origini o persino un netto cambio
di marcia.
Certo, se si dovesse buttare uno sguardo alle invocazioni di
Sun, Arise! (An Invocation, An Introduction)
e della speculare Sun's Arising (A Koan, An Exit) in chiusura, avvolte
da stratificazioni di riverberi e parti vocali che sembrano condurre agli estremi
certo manierismo alla Fleet Foxes, si sarebbe tentati di girare i tacchi all'istante.
Muchacho sarà anche un disco eccessivo, ridondante, persino molesto in alcuni
frangenti (lo è certamente per chi pensava di avere a che fare con un piccolo
fratello di Bonnie Prince Billy), ma in realtà nasconde un cuore lirico compassionevole
e disarmante, con testi che aprono l'anima e il cuore dell'autore, facendo quasi
supporre che si tratti di un'opera catartica. Non si rimane dunque indifferenti
al profluvio di fiati, tastiere, violini e pedal steel (il bravissimo Ricky Ray
Jackson) che trasformano A Charm/A Blade,
Terror in the Canyons (The Wounded Master), la dolcissima A
New Anhedonia e meglio ancora la mezza meraviglia di The
Quotidian Beasts in una specie di inno "cosmico" del suono
Americana, incrociando tradizione folk, walzer mariachi e sognante psichedelia,
un'inquietudine ineludibile della voce e una sensibilità tutta moderna di chi
è cresciuto dentro il vocabolario dell'indie rock di oggi.
La parte più
straniante di Muchacho - disco di contrasti e rappacificazioni, a cominciare dalla
copertina allusiva e da un contenuto che spazia dal sobrio all'autentica grandeur
- è posta in partenza, tra i loop elettronici e gli intrecci della cantilena Ride
On/Right On, o ancora nei lontani sintetizzatori di Song
for Zula, ma Phosphoresent sembra avere rimandato ad un ulteriore episodio
la sua possibile trasfigurazione: il resto è nuovamente un'unica, struggente elegia
per la West Coast più eterea e la lezione lontana del country rock: dalla toccante
melodia per piano e steel di Down to Go al
walzer straniante di Muchacho's Tune. Un disco di trasformazione e al tempo
stesso di piena consapevolezza artistica.