The Veils
Time Stays, We Go
[
Pitch Beast Records
2013]

theveilsofficial.tumblr.com


File Under: gothic pop/rock

di Yuri Susanna (29/07/2013)

I Veils di Finn Andrews, ovvero una creatura nata nel posto giusto (Londra, ma le origini sono neozelandesi) nel momento sbagliato. Il loro indie-rock con cadenze gotiche e accenti glam avrebbe trovato la sua cornice ideale nella seconda metà dei Novanta, quando sarebbero finiti sotto l'ombrello capiente del britpop, spalla a spalla con Verve, Suede e Divine Comedy. Invece esordiscono un po' troppo tardi, nel 2001, pubblicando il primo album solo nel 2004. The Runaway Found è accolto con smutandamenti di giubilo dalla critica ma non ottiene una risposta commerciale adeguata. Tanto che Andrews (a proposito, trattasi di figlio d'arte: il padre è l'ex tastierista degli Xtc Barry Andrews) scioglierà la band e tornerà a Auckland, a meditare sul futuro e a mettere insieme una seconda versione dei Veils. Di nuovo a Londra, ci riprova con Nux Vomica (sic) nel 2006. Altra messe di elogi, ma di nuovo il pubblico sembra essere interessato ad altro. E quando arriva il momento di Sun Gangs (2009) anche la critica ormai non se li fila più.

E' rock chitarristico, il loro, epico e catartico ma lontano da ogni tentazione di magniloquenza (non stiamo mica parlando dei Muse, dopotutto), melodico ma non banale, cinematografico nelle atmosfere. Questo quarto album giunge dopo più di dieci anni di storia di una band (dall'organico piuttosto instabile a onor del vero, Andrews a parte) che porta ormai addosso le stimmate della promessa mancata. Peccato. Ma, come hanno dimostrato recentemente gli I Am Kloot - altro gruppo benedetto da un futuro luminoso al momento dell'esordio e poi finito nel limbo - un buon disco può nascere in qualsiasi momento. Time Stays, We Go è proprio questo: una splendida raccolta di canzoni. Niente riempitivi, dieci brani ottimamente costruiti intorno alla voce di Andrews, una delle più intense ed espressive della sua generazione. Fate conto di sintetizzare il magnetismo maudit di Nick Cave, il crooning di Richard Ashcroft e un certo lirismo buckleyano (Jeff, non Tim) e avrete un'idea, per quanto imprecisa, di cosa stiamo parlando.

Through the Deep Dark Wood parte arrembante, sorretta da una tastiera new wave e un impeto quasi garage; Train with No Name rallenta il passo lasciando emergere l'interpretazione sofferta di Andrews e un bell'inciso di chitarra (vi ricorderà i Cult degli anni '80, se siete abbastanza vecchi); Candy Apple Red è una ballata decadente che paga il suo debito fity-fifty a Nick Cave e Chris Isaak; Dancing with the Tornado ha un che di sciamanico nella sua ossessività percussiva, tribale; The Pearl non si scuote di dosso una polvere epica che sa di U2 e Joshua Tree, finché verso il finale vira verso i Talking Heads (!); Sign of Your Love guarda alla nuova psichedelia d'oltreoceano (il disco è stato registrato a Laurel Canyon) ma senza abbandonare un retrogusto dark; Turn from the Rain è il momento più spensierato, un pop-folk che scherza con il sole del Messico; la desertica Birds potrebbe essere stata rubata a Howe Gelb; Another Night on Earth è baroque pop, con un calibrato lavoro di arrangiamento delle voci; Out from the Valley & Into the Stars chiude su toni dark, l'elegia di un crooner abbandonato dalla sua bella. Ve le abbiamo raccontate tutte, le canzoni di Time Stays, We Go. Ascoltarle però è un'altra cosa. L'invito ci sembra chiaro.


      


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