I Veils di Finn Andrews, ovvero una creatura nata nel posto giusto (Londra,
ma le origini sono neozelandesi) nel momento sbagliato. Il loro indie-rock con
cadenze gotiche e accenti glam avrebbe trovato la sua cornice ideale nella seconda
metà dei Novanta, quando sarebbero finiti sotto l'ombrello capiente del britpop,
spalla a spalla con Verve, Suede e Divine Comedy. Invece esordiscono un po' troppo
tardi, nel 2001, pubblicando il primo album solo nel 2004. The Runaway Found è
accolto con smutandamenti di giubilo dalla critica ma non ottiene una risposta
commerciale adeguata. Tanto che Andrews (a proposito, trattasi di figlio d'arte:
il padre è l'ex tastierista degli Xtc Barry Andrews) scioglierà la band e tornerà
a Auckland, a meditare sul futuro e a mettere insieme una seconda versione dei
Veils. Di nuovo a Londra, ci riprova con Nux Vomica (sic) nel 2006. Altra messe
di elogi, ma di nuovo il pubblico sembra essere interessato ad altro. E quando
arriva il momento di Sun Gangs (2009) anche la critica ormai non se li fila più.
E' rock chitarristico, il loro, epico e catartico ma lontano da ogni tentazione
di magniloquenza (non stiamo mica parlando dei Muse, dopotutto), melodico ma non
banale, cinematografico nelle atmosfere. Questo quarto album giunge dopo più di
dieci anni di storia di una band (dall'organico piuttosto instabile a onor del
vero, Andrews a parte) che porta ormai addosso le stimmate della promessa mancata.
Peccato. Ma, come hanno dimostrato recentemente gli I
Am Kloot - altro gruppo benedetto da un futuro luminoso al momento
dell'esordio e poi finito nel limbo - un buon disco può nascere in qualsiasi momento.
Time Stays, We Go è proprio questo: una splendida raccolta di canzoni.
Niente riempitivi, dieci brani ottimamente costruiti intorno alla voce di Andrews,
una delle più intense ed espressive della sua generazione. Fate conto di sintetizzare
il magnetismo maudit di Nick Cave, il crooning di Richard Ashcroft e un certo
lirismo buckleyano (Jeff, non Tim) e avrete un'idea, per quanto imprecisa, di
cosa stiamo parlando.
Through the Deep Dark Wood
parte arrembante, sorretta da una tastiera new wave e un impeto quasi
garage; Train with No Name rallenta il passo
lasciando emergere l'interpretazione sofferta di Andrews e un bell'inciso di chitarra
(vi ricorderà i Cult degli anni '80, se siete abbastanza vecchi); Candy Apple
Red è una ballata decadente che paga il suo debito fity-fifty a Nick Cave
e Chris Isaak; Dancing with the Tornado ha
un che di sciamanico nella sua ossessività percussiva, tribale; The Pearl
non si scuote di dosso una polvere epica che sa di U2 e Joshua Tree, finché verso
il finale vira verso i Talking Heads (!); Sign of Your
Love guarda alla nuova psichedelia d'oltreoceano (il disco è stato
registrato a Laurel Canyon) ma senza abbandonare un retrogusto dark; Turn from
the Rain è il momento più spensierato, un pop-folk che scherza con il sole
del Messico; la desertica Birds potrebbe essere
stata rubata a Howe Gelb; Another Night on Earth è baroque pop, con un
calibrato lavoro di arrangiamento delle voci; Out from
the Valley & Into the Stars chiude su toni dark, l'elegia di un crooner
abbandonato dalla sua bella. Ve le abbiamo raccontate tutte, le canzoni di Time
Stays, We Go. Ascoltarle però è un'altra cosa. L'invito ci sembra chiaro.