Come suonerebbero oggi i
Mumford & Sons se fossero stati un po’ meno piacioni? Quale sarebbe stato
il risultato del mix tra Americana/irish folk delle Seeger Sessions di
Springsteen se il Boss si fosse attenuto a canoni più tradizionali? O
i Sixteen Horsepower se fosse stata staccata loro la spina (elettrica)?
Probabilmente non lontano da questo terzo lavoro degli Orphan Brigade,
al secolo Neilson Hubbard, Ben Glover e Joshua Britt, che in questo nuovo
capitolo si spostano sulla costa irlandese, nel mitico Antrim di Belfast,
del Titanic e del gigante Fionn Mac Cumhaill, che costruì sul mare una
scala di roccia per raggiungere la Scozia (le Giant’s Causeway).
Dopo aver registrato il primo
disco in America inseguendo i fantasmi della guerra civile,
il secondo
in Italia a Osimo, il terzetto si sposta nella terra natia di Ben Glover
e prende spunto dalle leggende locali e dai luoghi (tutto descritto meticolosamente
nelle note) per scrivere i quattordici brani di questo To the Edge
of the World. La formula non cambia: americana gotica, intrisa
di folk irlandese, country pastorale, folk rock energico ed echi di southern
music, con una pletora di musicisti a fare da contorno (e non solo, se
pensiamo alla presenza di John Prine). Le canzoni - vero o no - sono state
composte in vari luoghi della costa dell’Antrim (castelli, scogliere,
spiagge), ma il tutto è stato registrato nell’antica chiesa di St. Patrick
a Glenarm. L’acclimatamento inizia subito con le cornamuse in Pipes’
Intro che lasciano spazio alla ballata Mad
Man’s Window, al suo mandolino battente e al ritmo incalzante
dell’acustica.
La mitologia folk irlandese (di cui esiste sterminata letteratura, da
Yeats a Stephens) è il tema centrale di Banshee,
ma le leggende, fra marinai, druidi, spiriti e amori impossibili, percorrono
tutto il disco, così come percorrono ancora oggi tutta l’isola di smeraldo,
dalle coste di Cork alle scogliere del Donegal. Passando per il valzer
di Isabella e per il cammeo di indiscutibile pregio da parte di
John Prine in Captain’s Song (Sorley Boy),
che viene arricchita dalla sua voce carica di emozioni e pathos, il disco
scorre veloce. Echi d’Irlanda ma anche di Guerra di Secessione americana,
fra cornamuse e note di mandolino, ci raccontano in musica storie di altri
tempi, come se fossimo davanti ad un gruppo di menestrelli medievali.
Il terzetto sa decisamente come arrangiare i brani e dappertutto ci sono
cori particolarmente azzeccati, giri di chitarra che catturano l’attenzione,
ritornelli che verrebbe voglia di cantare a squarciagola.
Se si volesse trovare una pecca a questo disco, la troppa continuità stilistica
con i precedenti e un po’ di "scontatezza" nell’insieme. Ma
a questo giro di pecche non ne vogliamo trovare e quindi ci ascoltiamo
To the Edge of the World rispolverando i nostri ricordi della verde
Irlanda, beandoci al suono di arpe e del tin whistle e immaginandoci ancora
una volta là, al confine del mondo.