Ritrovandosi con una voce
così - scura, profonda, dello stesso stampo di gente come Johnny Cash,
o magari di un Leonard Cohen convertitosi al country più nero - Gill
Landry può far risaltare certe sfumature e andare a nozze con un repertorio
denso nelle tematiche. Accade proprio questo nel suo quinto album solista,
Skeleton At The Banquet, nove brani composti dal cantautore
americano, originario della Louisiana, nel corso di un soggiorno in un
piccolo villaggio della Francia, la scorsa estate. Tenendo lo sguardo
distante dall’oggetto, quella “allucinazione collettiva”, come la definisce
l'autore stesso, che è diventata l’America attuale, Landry riunisce ballate
di pena e di amore, personale e sociale, forse incidendo il suo disco
più convincente in carriera.
Parte attiva degli Old Crow Medicine Show per una decina d’anni, insieme
ai quali ha registrato quattro album, nel frattempo anche solista (l’esordio
nel 2007), Landry ha prodotto il nuovo disco a Los Angeles con il bassista
Seth Ford-Young, suonando gran parte degli strumenti. Non eravamo stati
teneri con il predecessore, Love
Rides a Dark Horse, che pure aveva ottenuto riscontri generosi
dalla critica americana e inglese (Landry pubblica in Europa per la specializzata
Loose Music), un lavoro troppo accartocciato su se stesso, sulla distanza
monotono nelle melodie. La caratteristica del musicista però deve essere
questa, perché anche Skeleton At The Banquet si presenta con atmosfere
assai omogenee, una sorta di country&western rivisitato con il piglio
di un Nick Cave, ballate folk rock e alternative country in abito scuro
che sfruttano gli echi distanti della chitarra (l’affascinante apertura
con I Love You Two e il suo inconfondibile
twang sound) e naturalmente della voce non comune di Gill Landry, o ancora
armoniche “dylaniane” (The Wolf e Angeline), rintocchi di violino
e pianoforte (la dolcemente drammatica A Different
Tune, che mi ha ricordato il compianto Robert Fisher dei Willard
Grant Conspiracy).
L’insieme possiede però più idee e forza che in passato, forse complice
anche la dura consistenza dei testi, e tutto il disco acquista fascino
strada facendo: Nobody’s Coming e The Refuge of Your Arms
sono due ballate bluesy, immerse in un’atmosfera dark da bassifondi, un
po’ alla Tom Waits prima maniera, con una tromba che tradisce le origini
di Landry a New Orleans; Trouble Town
sfodera un violino zingaresco che la accompagna per mano e richiama davvero
Leonard Cohen; mentre Portrait of Astrid (A Nocturne) è un seducente
e curioso finale, titoli di coda che scorrono su uno strumentale da crepuscolo
western in una notte buia.