Calexico
Algiers
[
City Slang 
2012]

www.casadecalexico.com


File Under: desert rock

di Fabio Cerbone (13/09/2012)

La ricostruzione del suono Calexico era iniziata e fallita immediatamente con il manierismo di Carried to Dust, tentativo peraltro di uscire dal cul de sac rappresentato dall'anonimo Garden Ruin, forse il disco più genericamente indie rock della loro produzione. Algiers, prima opera concepita lontano dal guscio protettivo di Tucson, registrata nell'omonimo quartiere di New Orleans, staziona esattamente a metà strada fra le ambizioni dei due predecessori, trovando una sintesi in apparenza più accomodante e matura, ma in fin dei conti non arginando affatto la crisi artistica della band. L'idea che la spinta vitale si sia in parte prosciugata giustifica l'attuale stallo di Joey Burn e John Convertino, capaci solo a sprazzi di far progredire il sound dei Calexico (oggi nell'intenso, appassionato crescendo di Para, o nel funereo latin rock di Puerto, che tenta quanto meno di inglobare le radici di New Orleans dentro lo stile del gruppo, altrimenti del sound della città non vi è traccia) e semmai attenti ad addomesticare le pulsioni del passato in una versione adulta ma troppo inoffensiva della loro musica.

Se uno strumentale come la stesso Algiers offre una mitigata rilettura dei travolgenti brani che sommergevano opere essenziali come The Black Light e Hot Rail ci sarà pure un motivo: i Calexico del 2012, pur se ancora accompaganti per mano dal produttore Craig Schumacher, sembrano avere perso l'ardire un po' free di un tempo, attenuando il mistero insito da sempre nelle loro composizioni. Il deserto è divenuto allora una cartolina e le pulsioni fra country di frontiera e sfumature latine si limita a qualche spunto di maniera: Sinner in the Sea e Maybe on Monday recuperano riverberi Americana e ombre dell'Arizona, No Te Vayas è l'immancabile compito messicaneggiante (collaborazione con Jairo Zavala dei Depedro) svolto scrupolosamente, mentre Epic acquieta l'ascolto con un mix di dolcezza e grandi orizzonti che paiono la copia di Quatro (World Drifts In) dal loro quarto lp Feast of Wire.

Questo gioco di specchi con il passato è anche la forza che tiene relativamente in piedi la struttura di Algiers, mai sotto il limite di guardia certo, ma anche mai veramente capace di rivelazioni: il singolo Splitter accentua la soavità del canto di Burns dentro un levigato country rock di confine; Fortune teller e Better and Better ne accentuano il carattere malinconico della scrittura, ricordandoci del grumo scuro e impenetrabile di lavori quali The Black Light, oggi solo rievocati a distanza. Quasi logico che il disco si adagi sulla dolce mestizia di Hush e fra gli eleganti archi di The Vanishing Mind, ballate che lavano l'oscuro suono di frontiera degli esordi per abbracciare un'emotività più ricercata. Gli sprazzi di classe non possono essere cancellati in un sol botto e Algiers avrà ancora qualche fascinazione da regalare, ma sullo stesso terreno il vecchio maestro Howe Gelb sembra davvero avere impartito una lezione agli allievi con il suo recente Tucson.


    


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