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rockin' in the woods di
Fabio Cerbone (10/10/2013)
La prima impressione è di avere quasi sbagliato disco e band, ma in fondo non
le radici di un suono e forse neppure di un intero immaginario: Miles
and Miles gronda di riverberi, chitarre e organi, è accompagnata da
un falsetto che ricorda paurosamente Jim James dei My Morning Jacket e da una
melodia distante e maliconica che ha l'impronta del Neil Young più introverso.
Sono invece i canadesi The Deep Dark Woods - una delle più intriganti scoperte
del mondo rock tradizionalista in stagioni recenti - a scegliere questa fuorviante
introduzione per il loro nuovo sforzo artistico, Jubilee. Spiazza
il brano perché sembra appartenere ad una fragile estestica, legata più all'indie
rock e meno a quella sorta di agrodolce alternative country che ci aveva fatto
invaghire di loro con l'uscita di The
Place I Left Behind (terzo disco in carriera, prontamente recuperato
dall'indipendenza e pubblicato dalla Sugar Hill nel 2012).
Si tratta di
un fuoco di paglia, forse un diversivo prima di addentrarsi nel cuore dell'album.
Quest'ultimo resta una naturale evoluzione del passato, una sequela di ballate
rarefatte che portano il folk rock e le radici country appalachiane del gruppo
verso le radure umide e i boschi dello stato di Alberta: ci tengono infatti The
Deep Dark Woods a farci sapere che l'intero Jubilee è stato catturato in una baita
delle Rocky Mountains, Bragg Creek il luogo preciso del misfatto. Forse perché
la loro musica è inscindibile dalla geografia di certi luoghi: il canto cupo e
nostalgico Ryan Boldt, i riverberi caldi e minimali delle chitarre di Burke Barlow,
quell'incedere pigro e delicato che ha fatto la fortuna dei lavori precedenti.
Oggi però l'arricchimento del sound si fa evidente: con la firma importante di
Jonathan Wilson sulla produzione, i Deep Dark Woods allargano le maglie delle
loro ballate, sposando un folk elettrico più dilatato e spunti strumentali che
strizzano l'occhio ai sixties, a certa psichedelia rarefatta, anche attraverso
l'utilizzo di chincaglierie vintage (organetti desueti come celesta e novachord,
un vibrafono…).
Si sciolgono così le inibizioni nel finale, tra l'impalpabile
The Beater e ancor di più nei dieci minuti
e passa di The Same Thing, letargico boogie
sui cui evidentemente non deve essere stata secondaria la stessa presenza di Wilson.
Ciò detto, stile e portamento non cambiano radicalmente, anzi, perché la semplicità
di gusto e l'approccio lieve della band conserva i suoi tratti caratteristici:
Picture on My Wall, Pacing the Room,
A Voice is calling, I Took to Whoring
sono un unico condensato della loro magia e al tempo stesso un limite nel
trattenere buona parte del disco dentro simili atmosfere. In tal senso Jubilee
non gode dell'effetto sorpresa e del grande salto qualitativo del suo predecessore
(dal roots più spicciolo degli esordi a qualcosa di assai più caratteristico),
e può permettersi qualche volta di fare anche accademia: il singolo 18th
of December è un country rock da manuale con una melodia rubata e rallentata
dal classico Shady Grove, Bourbon Street un
dolce folk dai riflessi "byrdsiani", mentre Gonna Have
a Jubilee e It's a Been a Long Time
rotolano dolcemente sulle armonie vocali e su quelle ambientazioni quasi spirituali,
soffuse, tipiche dei cinque canadesi.