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alt-country, roots rock di
Fabio Cerbone (30/08/2013)
Si presenta con le entusiastiche note introduttive di Ben Nichols dei Lucero,
amico di lunga data, il quinto album solista di Austin Lucas, prima vera
occasione di uscire dall'indipendenza assoluta con un nuovo fiammante contratto
per la New West. La firma per una delle etichette regine del suono Americana porta
con sé uno disco dichiaratamente più elettrico rispetto ai precedenti, sorta di
punto d'arrivo di una trilogia che aveva visto già nel precedente A
New Home in The Old World un progressivo ispessimento rock della sua
scrittura. Lucas, figlio dell'Indiana con sangue hillbilly e bluegrass nelle vene
(il padre musicista gli ha passato il testimone, partecipando alle stesse incisioni
dei suoi album), ci aveva sorpresi e travolti con la cristallina bellezza del
suo canto e l'anima country purissima che aleggiava in Somebody Loves You e in
parte nel già citato A New Home in The Old World, opere che mediavano tra l'irruenza
del giovane musicista cresciuto nello scuro alveo punk metal e il cantore più
solitario e romantico, intriso dell'immaginario country&western e della spiritualità
gospel.
Strana alchimia a pensarla così, ma i tatuaggi che ricoprono le
braccia di Lucas sono i segni di una ribellione ormai lasciata alle spalle, contrasto
vivido con l'angelica interpretazione di Four Wheels,
essenza del suono alternative-country per pedal steel e violini, oppure con il
picking acustico e assorto di Rings, cuore
di uno stile che Austin Lucas ha affinato nel tempo e che oggi si nutre dell'apporto
di una backing band più stabile e compatta. Sono infatti i Glossary (e
in aggiunta l'ottimo Todd Beene, collaboratore dei Lucero, alla steel guitar),
interessante realtà dell'indie rock sudista di Memphis, ad instradare Lucas in
un percorso meno solitario del previsto, alzando il tiro nelle stoccate roots
rock in Let Me In, Stay
Reckless e So Much More than Lonely e al tempo stesso spostando
il baricentro delle ballate più elettriche (l'asso nella manica si chiama Alone
in Memphis, ma anche Small Town Hearts e Save
It for Yourself se la cavano egregiamente sullo stesso terreno) verso
quella espressione rock rurale che potremmo tranquillamente inserire nell'albero
genealogico formato da Slobberbone, Lucero, giù fino ai padri putativi Uncle Tupelo.
La produzione vibrante di Mark Nevers (Lambchop, Bonnie Prince Billy)
spinge in questa direzione, lasciando in superficie ogni singolo accento della
ruvida educazione musicale di Austin Lucas: il rustico sapore country outlaw di
Different Shade of Red, il classico passo
honky tonk di Gift and Gamble, fino alla chiusura per mandolino, piano
e chitarre della filiforme, dolcissima Splinters,
dove la vocalità del nostro si dipana in tutta la sua trasparenza confessionale.
Stay Reckless è forse disco meno aspro e più "formale" dei predecessori,
comprensibile nel tentativo di rivolgersi al pubblico Americana più vasto, ma
non addomestica del tutto il fascino grezzo di questo autore, diviso fra paradiso
e inferno.