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"Dead" in space rock di
Fabio Cerbone (01/11/2013)
Se
i Grateful Dead si fossero imposti nel pieno della bolgia alternative rock e post
punk degli anni 80 avremmo forse ottenuto un esito simile: incontro di onirica
psichedelia, controllato rumore chitarristico e avanguardia rock della grande
scuola newyorkese, Last Night on Earth è la faccia più disarmonica,
elettrica e tempestosa di quel recente ritorno ai sogni lisergici tipici delle
coda finale dei sixties. Prendetelo allora come il gemello più magmatico e scontroso
dell'operazione compiuta da Jonathan Wilson, con la differenza che Lee Ranaldo
non ha un passato qualunque sulle spalle e un pedigree da costruire attraverso
collaborazioni illustri, semmai una storia radicata ed essenziale (i Sonic Youth
come faro di una rivoluzione nella scrittura rock), che nella sua mutazione solista
ha deciso di imboccare una strada più classica.
Rispetto alla altrettanto
fervida attività degli ex compagni Thurston Moore e Kim Gordon, è innegabile infatti
che il percorso di Ranaldo si sia fatto quanto mai "tradizionale" e i riferimenti
espliciti alle strutture dei citati Dead di Jerry Garcia (lo ammette candidamente
lo stesso Ranaldo in sede di ispirazione), così come ad una forma canzone che
in alcuni tratti sembra persino ricordare i REM o certe intuizioni del Paisley
Underground che fu, sono la dimostrazione di un songwriting interessato meno alla
sperimentazione e più all'anima della canzone. Tutto ciò senza perdere il gusto
per l'avventura, per una forma di space rock dilatato che nel nuovo capitolo Last
Night on Earth si fa persino più accentuato rispetto al già positivo debutto Between
the Times and the Tides. È la formula stessa Lee Ranaldo and the
Dust (gruppo così ribattezzato con le figure del chitarrista Alan Licht, del
bassista Tim Luntzel e del vecchio compare Steve Shelley ai tamburi) ad indicare
un percorso di condivisione del nuovo materiale: più gioco di squadra dunque e
intrecci fra le parti, espansione della tavolozza dei colori, tanto da prendersi
sbandate "soniche" che sgomitano, si agitano e si sviluppano a dismisura tra i
nove minuti di The Rising Tide
e i quasi dodici di una conclusiva Blackt Out.
Nello svolgimento momenti di placida sospensione e attacchi furiosi, alternando
l'immaginazione scura dei testi di Ranaldo con la tempesta elettrica delle chitarre,
a cui spesso si affiancano l'organo o il piano elettrico di John Medeski. La struttura
è chiara e nella successione di vuoti e pieni, improvvisazione e calma si giostrano
le qualità di Key-Hole o della stessa apertura
di Lecce, Leaving, che dischiude le porte
con un travolgente brano di classica impronta alternative-rock, fra accelerazioni
e trame sospese. Sorta di completamento o di secondo maturo capitolo rispetto
al predecessore, Last Night of Earth non ne sacrifica l'atmosfera composta e quasi
tradizionalista, ma allo stesso tempo ne accresce gli aspetti strumentali: da
una parte la perfetta sintesi della title track, ballata grungy che pare uscire
da un tempo indimendicato dell'underground americano, o il pop acustico e barocco
di Late Descent #2, dall'altra gli arpeggi
e gli stridori di Ambulancer, che porta certo
tutti i segni della storia dei Sonic Youth (quanto meno quella più recente,
dal successo di Dirty in poi) ma sa anche non rifare soltanto il verso a se stessa.
Semplicmente un solido, grande album rock: vecchia scuola certo, ma tiene la posizione.