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Shortcuts #1: Scott McClatchy; Jonathan Peyton; Brock Davis; Steve Yanek | |||||||||
a cura della redazione di RH |
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|| Scott McClatchy ||
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Chitarrista di Philadelphia con una carriera nelle retrovie da autentico outsider del rock’n’roll, Scott McClatchy torna a due anni dal precedente album, Six of One, con il sesto lavoro discografico dal titolo One Time, One Night, In America, dall’omonima canzone dei Los Lobos che lo stesso McClatchy qui rilegge in maniera abbastanza fedele (ma senza le qualità interpretative di David Hidalgo). I tredici brani sono un condensato del suo pensiero da vecchia scuola blue-collar rock, inevitabile, verrebbe da dire, per un musicista che ha suonato al fianco di Dion e ha collaborato in passato con il compianto Scott Kempner (Del Lords, Dictators). Il sound di McClatchy, in questa occasione affiancato dai Merry Hang, attinge dunque da quel vasto patrimonio di folk rock a tinte soul che animava l'Asbury sound di Little Steven e la New York di un giovane Willie Nile, con l’apertura "politica" di This Land is Our Land a fare da manifesto. Ci sono momenti acustici, la melodia di un piano, una spolverata di archi e persino un tocco di Irlanda a spezzare il ritmo più urbano di Gunslinger o i violini roots alla Mellencamp di Bad Things Happen, ma il racconto è sempre quello di un'onesta resistenza.
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|| Jonathan
Peyton ||
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Jonathan Peyton da Woodstock, Georgia, si presenta con il suo esordio sulla distanza, Nothing Here’s the Same, coinvolgendo nella produzione dell’album Sadler Vaden, apprezzato chitarrista al fianco di Jason Isbell nei 400 Unit. L’impostazione sonora che Vaden offre alle canzoni di Peyton ottiene il giusto compromesso tra il profondo radicamento country e la spinta elettrica di certo heartland rock, chitarre che vanno a braccetto con violini e pedal steel, raccontando storie attraversate da demoni e riscatti personali per un ragazzo diventato adulto nell’America evangelica, quella in cui la religione può essere una gabbia di pregiudizi e fanatismi. Sono alcuni dei temi, scuri e drammatici, che caratterizzano i brani di Nothing Here’s the Same, sebbene il tono agrodolce dell’album tenga a freno il sentimentalismo, concedendo a volte spazio alla luce di un country rock stradaiolo e apertamente sudista, con le chitarre che si liberano in Goin’ Crazy e la forza dialogante di melodia ed elettricità in Those Days Were Hell e Denial. Jonathan Peyton canta con convinzione del suo “inferno” e del suo piccolo mondo americano, offrendo il meglio di sé nei tempi medi e fra le ballate dal tono più accorato.
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|| Brock Davis ||
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Ritratto in copertina in una posa da preghiera laica - l’autore stesso si definisce persona spirituale ma non legata una fede religiosa in particolare - Brock Davis presenta il suo nuovo album Everyday Miracle, tredici canzoni che compongono la prima parte di una serie di registrazioni tenutesi al Backstage Studio di Nashville nell’arco di soli due giorni, con la previsione di pubblicare il secondo atto nei primi mesi del 2025. Una session evidentemente molto fertile per il musicista californiano, originario di Santa Cruz, convinto della qualità del materiale a disposizione, prodotto insieme a Zach Allen (Keb Mo', Christone 'Kingfish' Ingram) e che vede coinvolti turnisti di solida esperienza della scena rock e country di Nashville. La pulizia sonora dell’album è innegabile, collocando la musica di Davis in quel filone di pop rock americano con ascendenze country e folk che rimanda alla grande stagione dei songwriter degli anni Settanta, con numerosi debiti di ispirazione nei confronti di Bruce Springsteen, Jackson Browne e Billy Joel. Everyday Miracle lascia la sensazione di quel buon mainstream tipico di certa canzone rock americana, dai momenti più riflessivi ad alcune pop song più rotonde e radiofoniche, senza tuttavia distinguersi per una particolare qualità di scrittura musicale.
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|| Steve
Yanek ||
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Due anni fa Long Overdue aveva rappresentato forse il momento più ambizioso della seconda carriera di Steve Yanek, la prima passata a occuparsi di attività imprenditoriali, immaginiamo ben più redditizie ma meno appaganti a livello personale. A quel disco partecipavano nomi di tutto rispetto, tra cui spiccavano le figure di Jeff Pevar (David Croby, CPR) e Kenny Aronoff (John Mellencamp). Originario dell’Ohio, ma in realtà innamorato del suono californiano più classico della West Coast e di una canzone pop rock con inflessioni Americana, Yanek attinge con September dalle stesse ispirazioni, un album composto e registrato nell’arco di un anno e mezzo in piena epoca pandemica. La vera differenza rispetto al passato sta nel fatto che l’intero September è stato suonato e prodotto dal solo Yanek nel suo studio di registrazione casalingo, con una apprezzabile qualità strumentale e la capacità di modellare i suoni a lui più congeniali. La voce del protagonista a volte mostra un po’ la corda, anche se la musica di Yanek continua a essere piacevole e amorosamente allineata alla lezione dei suoi maestri, un pantheon dove rientrano Jackson Browne, James Taylor e il dimenticato Dan Fogelberg. Resta l’impressione, già evidenziata con il citato Long Overdue, di una certa patina di nostalgia.
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