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young, gifted and black di
Pie Cantoni (19/09/2015)
Nel 2012 l'enfant prodige di Austin è uscito con il suo primo disco per una major,
Blak and Blu, un mix che faceva riferimento al blues, ma con grande predominanza
di r&b, hip hop, rock, funk e soul. Un po' troppo forse (e il troppo, si sa, stroppia..),
il tutto condito con una produzione molto patinata che, sebbene si intuisse qualcosa
di buono sotto la superficie, all'ascolto evidenziava comunque i suoi limiti.
Due anni dopo Gary Clark Jr è tornato con un doppio
live, che a nostro avviso è stato uno dei più bei dischi dal vivo
del 2014. Sul palco Gary e la band avevano grattato via tutta la patina luccicosa
di Blak and Blu e avevano tirato fuori una perla di blues, soul e rock non indifferente.
Un grande successo commerciale alle spalle, le luci della ribalta puntate
addosso e la recente paternità, adesso il chitarrista di Austin è cresciuto molto
e ci riprova. The Story of Sonny Boy Slim è prodotto direttamente
da Gary Clark ed è composto da tredici tracce originali. The
Healing è il brano uscito in anteprima ed è anche l'apertura del disco.
Nonostante l'inizio con un canto di lavoro del genere field song, la canzone vira
subito sull'hip-hop, spiazzando chi ascolta. Anche se la produzione non è più
in mano a Rob Cavallo e Mike Elizondo (non proprio i produttori ideali per chi
fa un certo genere di musica), i suoni rimangono molto enfatizzati, troppo lavorati
e post-prodotti. Più Justin Timberlake che White Stripes per capirci. La maggior
parte delle canzoni del disco si muovono tra lo stile Stax e Motown (Star,
Our Love, BYOB, Cold Blooded), falsetti e ritmi dilatati
con basi di basso in evidenza, ma niente che ci faccia dimenticare Marvin Gaye
o Otis Redding. Anzi. Poi ci sono brani più spinti sulla black music di oggi,
Can't Sleep, Wings, Stay, indefinibili per un artista che
sia nato e cresciuto ad Austin, circondato da musicisti di classe del blues, ma
che sembrano scritti dai soliti professionisti delle scalate di classifica.
Church
è una specie di preghiera folk per chitarra e armonica e in Shake
Gary finalmente si ricorda delle radici e tira fuori un pezzo alla
RL Burnside, e suona bene anche se in mezzo al disco stona come un fan dei Motorhead
ad un concerto di Kylie Minogue. Comunque si tratta degli unici pezzi da ricordare
del disco. Down To Ride chiude (malamente)
questo secondo capitolo in studio del chitarrista texano. In definitiva sembra
che Gary si divida bipolarmente tra studio e live, lì dove in studio produce album
alla Lenny Kravitz (ultima maniera, purtroppo), con quel ritmo e sound modaiolo
da metro-hipster, mentre dal vivo si ricorda che, volente o no, le radici di tutta
la musica sono "black", e lì ritorna, come chi rientra in un porto sicuro dopo
aver navigato in acque agitate.
Gary in una passata intervista ha detto
che i "neri" non suonano più Blues perché adesso ci sono i bianchi con i soldi
che lo fanno e suonare canzoni del periodo pre-guerra vuol dire rimanere attaccati
ad un momento storico preciso fatto di razzismo, segregazione, violenze. Scusaci
Gary, capiamo tutto, ma ti preferiamo comunque quando suoni Blues.