Dalle note. “Si immagini
un juke joint lassù, dove BB, Albert, Freddie, T-Bone e tutti gli altri,
suonano e si intrattengono in lunghe jam; uno dei fratelli Chess avverte
‘hey voi laggiù, occhio a quel ragazzino del Tennessee, ha fatto man bassa
di tutti quei licks e li ha impacchettati in una cosa tutta sua!” Ironia
e pizzico di retorica; ma in buona sostanza dev’essere così. Yates
McKendree ha sicuramente “fatto man bassa” di tutto quello che, parlando
di blues in particolare, va dall’estremo nord all’opposto sud, passando
per Nashville e per Buchanan Lane, titolo del disco di debutto,
nonché della strada di casa; e si sa che, da Abbey a McLemore, la cosa
può portare fortuna.
Ce lo auguriamo; quell’incetta ha contribuito a formare un musicista in
grado di delineare le sue personali coordinate stilistiche, un eccellente
polistrumentista (chitarra come arma ufficiale) dotato di una voce matura,
ancorché intrisa di una naturale freschezza; d’altra parte, saper rimodellare
le ispirazioni è un’arte. Nonostante l’età (ventuno anni al momento della
recensione), Yates porta già il suo consistente fardello; una frequentazione
dei palchi da quando era poco più che decenne, oltre a collaborazioni
altisonanti, è il caso di John Hiatt e di The
Eclipse Sessions (“Yates è il nostro asso nella manica”) o
del Delbert McClinton di Tall
Dark And Handsome (2019). Oltre a ciò, il riferimento costituito
dal padre, Kevin, ottimo pianista che ritroviamo in tanti dischi blues
di recente generazione (Mike Henderson, Tom Principato, Brian Setter etc.).
Il quale genitore dà volentieri una mano al figlio, dividendo con
lui piano e organo, praticamente in tutto il disco, a partire dall’opener
Out Crowd, notevole principio di soul
jazz, evidente omaggio al fu Ramsey Lewis (hit nel 1965 per Dobie Gray);
il brano dà immediatamente conto del talento del giovane protagonista,
grazie all’eccellente prestazione al piano.
E così via per tutto Buchanan Lane, il quale si compone di tredici
tracce suonate egregiamente, tra qualche originale di buon livello come
Wise, buon blues in minore che rimanda
a BB King (del re viene ripresa in questa sede Ruby Lee, gioiello
dell’era Modern, 1956) o No Justice (lento dal tipico incipit alla
T-Bone Walker) e diverse cover scelte con cura. A partire proprio da T-bBone,
del chitarrista texano vengono proposte Papa Ain’t Salty, trascinante
ancorché canonica, basata su un robusto riff di piano e No Reason,
blues per piccolo combo e da ore piccole, un po’ come la “self-penned”
Wine, Wine, Wine (nessuna relazione con Floyd Dixon, né con
i Nightcaps). La provvidenziale “man bassa” cui facevamo riferimento all’inizio,
permette a Yates di muoversi verso brani più particolari come Brand
New Neighborhood, oscuro r&b dal repertorio dell’altrettanto misconosciuto
Fletcher Smith, bel proto rock’n’roll fortificato dai fiati o It Hurts
To Love Somebody di Guitar Slim, che consente al nostro di mostrarsi
per intero in veste di chitarrista; il grazie stavolta è per la dinastia
dei King.
Oppure di prodursi in quello che è uno dei migliori pezzi del disco, Qualified,
dal libro mastro di Dr. John (In The Right Place, 1973), pregevole
rilettura con tutti i patterns targati New Orleans al posto giusto, in
un elegante tripudio di piano, voce, fiati e sezione ritmica (Steve Mackey
al basso, Big Joe Maher per lo più alla batteria; per i fiati vedi info).
Più che degna la conclusione, sulle note di Voodoo Funky,
in stile Meters, condotta dall’organo di Kevin e con Kenneth Blevins alla
batteria (John Hiatt). Un altro salto nella crescent city? Si…ma prima
di cena. Impeccabile!