The Jayhawks
Hollywood Town Hall [American/ Sony Expanded Edition
 2011
]   
Tomorrow the Green Grass [American/ Sony Legacy Edition, 2cd  2011]
  


All'epoca i Jayhawks sembravano soltanto una buona rock-band, di quelle decise a rispolverare grinta e chitarre in un momento in cui andava tutt'altro, e George Drakoulias, allora responsabile dei primi due album dei Black Crowes, un produttore dal curriculum in via di definizione. In realtà, il gruppo fu forse il primo, se si escludono gli esperimenti simili sbozzati (con troppo alcool in corpo) da band di Minneapolis quali Replacements e Soul Asylum, ad articolare in modo da subito compiuto e coerente un discorso dove le sempiterne radici country e folk del classic-rock venivano contaminate non con la lezione della Brit-invasion, bensì con il pop, il soul e l'hard-rock anni '70 che a nessuno era ancora saltato in mente di sdoganare. L'ispirazione di Gary Louris e Mark Olson era antitetica e complementare: il primo, già responsabile di alcune tra le più sferzanti rasoiate elettriche di Still Feel Gone (Uncle Tupelo, 1991), vagheggiava un'idea di pop'n'roll teatrale e dalle sfumature glam (non a caso sarebbe poi arrivato a farsi produrre, dopo la defezione di Olson, dal Bob Ezrin di Alice Cooper, Kiss e Pink Floyd), era ossessionato - ricorda Drakoulias - dallo stile inafferrabile della sei corde di Carol Hunter (chitarrista di Neil Diamond sul live Gold e dal '71 in poi), inseguiva la perfezione delle melodie beatlesiane con esuberanza sfacciata; il secondo, più introverso e riposto, rappresentava l'anima roots della band, il gusto per la sciolta semplicità degli intrecci strumentali, l'inclinazione orgogliosa verso il country più secco, diretto ed essenziale (i suoi ascolti del periodo prevedevano razioni sostanziose di Porter Wagoner e Louvin Brothers). Drakoulias fu perfetto nel bilanciare lo stile dei due e nel ricomporlo in un amalgama definitivo. Gli mancavano soltanto un batterista dalle dinamiche più squillanti (lo reperì in Charlie Drayton, dagli X-Pensive Winos di Keith Richards) e un tastierista in grado di cucire il tutto (si avvalse, rispettivamente, di Benmont Tench, dagli Heartbreakers di Tom Petty, e del venerando Nicky Hopkins, nientemeno), ma si trattava, di fronte alla bellezza senza tempo delle canzoni, di dettagli sui quali non fossilizzarsi: l'importante era trovare, per i Jayhawks, un suono classico e moderno al tempo stesso, che contemplasse la bellezza dell'imprevisto e la solidità architettonica della musica del passato.

Drakoulias e i Jayhawks lo trovarono, quel suono, impastato della malinconia delle nevi in procinto di sciogliersi per la primavera e infradiciato dalla tensioni emotive del gospel: Hollywood Town Hall custodiva passato e presente nelle stesse immagini, dipingendo un viaggio tra folk-rock e sciabolate d'organo (Waiting For The Sun, uno dei singoli più memorabili dei '90 tutti), tra esplosioni elettriche (Wichita) e abbandoni rootsy (Two Angels), tra scossoni blue-collar (l'omaggio a Bruce Springsteen della travolgente Martin's Song) e serpentine younghiane (Crowded In The Wings), che di rado il rock americano aveva - ha e avrà - saputo proporre così maturo, toccante, definitivo. I Jayhawks dei primi due album, quei The Jayhawks e Blue Earth ('89) che li avevano visti proporsi come credibili (e peraltro bravissimi) raccoglitori del testimone lasciato in sospeso da Gram Pasons e dai Flying Burrito Brothers, si trasfigurano nelle fiamme della Gibson di Louris (sentitela urlare nelle evoluzioni di Take Me With You (When You Go) e Nevada, California) e nell'acume diaristico della scrittura di Olson, che raggruppa i fantasmi delle province del Midwest in canzoni tanto immediate quanto ricche di particolari, secondo la lezione dello Sherwood Anderson di Winesburg, Ohio (1919). (Tra parentesi, un libro assai più influente e cruciale del corrispettivo poetico, ovvero la coeva Antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters: oggi il capolavoro di Anderson è tornato in libreria, per i tipi di Einaudi, con una nuova traduzione di Giuseppe Trevisani e una bella prefazione di Vinicio Capossela, se non l'avete ma frequentato fatelo ora.) Le cinque canzoni inedite della "Expanded edition" di Hollywood Town Hall altro non fanno se non confermare la grazia olimpica dell'equilibrio tra Olson e Louris: dal rock'n'soul della focosa Leave No Gold all'honky-tonk da manuale di Keith And Quentin, dal gospel trascinante del traditional Up Above My Head al folk-rock agrodolce della sublime Warm River, passando per il countreggiare lo-fi di Mother Trust You To Walk To The Store (un titolo un romanzo!), anche il bricolage delle prove in studio appare semplicemente immacolato.

Il disco fu un successo, seppur di nicchia, e spianò la strada alle grandi attese intorno al successivo Tomorrow The Green Grass, che andò a sua volta abbastanza bene ma non ebbe riscontri sufficienti a giustificare gli investimenti impegnati per confezionarlo. Meno quadrato e compatto del predecessore, eppure, in un suo modo particolarissimo, più struggente, rattristato e incupito, l'album rivelò il lato più pop della band. Un pop naturalmente particolare, sempre americano e decisamente rockista, infarcito di archi e seduzioni ipnagogiche (da una parte Neil Young, dall'altra John Lennon, dall'altra ancora i Ride di Carnival Of Light, da Drakoulias supervisionati un anno prima). Sembrò dispersivo, Tomorrow The Green Grass, e invece, ancora una volta, gettava semi che avrebbero fatto fiorire il cielo di moltissima musica indie degli States a venire: il power-pop di Bad Time (dai Grand Funk Railroad, e si trattava, per l'epoca, di una parolaccia) strizzava l'occhio ai futuri Golden Smog, il country-pop della stupenda Ann Jane si mangia a colazione tutti gli Iron & Wine o Doug Paisley (entrambi eccelsi, per carità) arrivati secoli dopo, il rock'n'roll di Real Light fa schizzare dalla sedia qualsiasi tentativo di duplicare la sordida furia bluesata dei primi Stones, il Wurlitzer della nuova arrivata Karen Grotberg su Red's Song riempiva di soul i contorni di una musica americana mai così densa e porosa (fino all'apoteosi di una Ten Little Kids che evocava Shel Silverstein, Bobby Bare e tutto il citabile in materia di cantilene elettriche a cavallo tra rock e country). Stavolta, nella ristampa, si raddoppia addirittura, e vicino a cinque inediti in altalena tra il grande pezzo mancato (la ruvida title-track, inspiegabilmente esclusa dalla scaletta originaria) e ruspanti divertissement (lo sgangherato cabaret waitsiano della già nota Last Cigarette e della caracollante Sleep While You Can), spunta persino un intero disco di inediti, diciotto schegge elettroacustiche che prendono il nome di "The Mystery Demos" e, di nuovo, hanno pochissimo da invidiare alle loro gemelle compiute: almeno due meraviglie assolute (la corrusca Won't Be Coming Home e la raccolta Ranch House In Phoenix) e parecchi spunti di interesse in una cornucopia di rock spartano cui l'Olson solista avrebbe sovente fatto ritorno.

Sono successe così tante cose, all'indomani di questi album, il rock'n'roll si è talmente spezzettato e frammentato (gli stessi Olson e Louris si sono persi e ritrovati), che le nuove edizioni di Hollywood Town Hall e Tomorrow The Green Grass rischiano di depositare un po' di polvere museale su di un'epopea che si vorrebbe soltanto fossero in molti a conoscere meglio. Ma in fondo, non è a Louris, a Olson o ai Jayhawks di vent'anni fa che dobbiamo chiedere dove sia andato a finire il rock americano (che tutti davamo per morto in una stagione in cui uscivano Hollywood Town Hall, The Southern Harmony & Musical Companion, Let Me Come Over, Kiko, New Miserable Experience, Bone Machine, Grave Dancers Union, Main Offender... !). Passate le sbornie elettroniche, new-romantic e neo-garagiste degli '80, è stato grazie a questi dischi che ci siamo rimessi in viaggio, tornando a sognare il paesaggio inesauribile della canzone rock: impossibile prenderli sottogamba allora, doveroso celebrarli oggi.

(Gianfranco Callieri)

www.jayhawksofficial.com
www.americanrecordings.com


 


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