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Paul
Westerberg
Knockin' on Mine |
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Look me in the eye/ And
tell me that I'm satisfied/ Look me in the eye/ Unsatisfied
Un'intera generazione
cresciuta fra la disillusione del post punk degli anni '80
continua miracolosamente il suo percorso, diventando essa
stessa un punto di riferimento per i nuovi arrivati. Mentre
Bob Mould celebra l'avventura Sugar e torna a far ruggire
le chitarre, mentre J Mascis e i Dinosaur Jr prolungano
una seconda giovinezza, mentre Stan Ridgway, Steve Wynn,
Frank Black e altri talenti dell'epoca "alternativa"
alimentano la loro carriera solista, uno solo sembra essersi
eclissato, outsider per eccellenza e insofferente alle regole
del music business: Paul Westerberg |
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A
cura di Fabio Cerbone | |||||
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In pochi probabilmente
avrebbero scommesso sugli sviluppi della carriera solista
(o di qualsiasi carriera, se per questo...) di Paul Westerberg
agli inizi degli anni 80: Minneapolis era il centro nevralgico
più eccitante dell'undreground del periodo e la sua band
di riferimento, The Replacements, girava in un furgone scassato
mezza America diffondendo il verbo del punk rock più furioso,
sgangherato e iconoclasta del momento. Illuminanti restano
in tal senso le pagine dedicate ai Mats in American
Indie (Arcana, 2010) dal critico Michael
Azerrad, accorate, quasi struggenti nel descrivere l'innocenza
scriteriata di quattro ragazzini (con Paul c'erano l'amico
perduto Bobby Stinson, morto prematuramente, il fratellino
di quest'ultimo, un imberbe Tommy Stinson e Chris Mars)
innamorati del rock'n'roll più rozzo, ma trascinati
in un vortice di rabbia giovane e insoddisfazione sociale
(erano gli anni reaganiani, signori miei) che li spinge
a crescere dentro uno stile di vita folle. In compagnia
degli altri alfieri cittadini del genere, gli Husker Du
di Bob Mould e Grant Hart, Westerberg assume involontariamente
su di sé il ruolo di portavoce di una nuova nazione, passando
in fretta dallo sconquasso punk degli esordi ad una maturazione
intensa di parole e suoni, gli stessi che porteranno in
dono veri e propri inni underground quali Unsatisfied
e Bastards of Young e dischi quali Lei It Be e Tim.
Per
molti fu All Shook Down, addio discografico dei Replacements, l'effettivo
debutto di Westerberg, vista la totale latitanza degli altri componenti nell'apporto
compositivo e il suo dominio assoluto sul progetto insieme al produttore Scott
Litt (da sempre legato ai REM). Una tesi quella dell'esordio sotto mentite spoglie
che si avvicina parecchio alla verità se si osserva con attenzione il primo ufficiale
disco a firma solista di Paul, che si fa largo fra la muraglia di produzioni grunge
e l'esplosione dell'alternative rock nel 1993. 14 Songs, prodotto
da Matt Wallace con una mano "leggera" e sensibile al guitar rock più classico,
non si discosta moltissimo dalle intuizioni raggiunte nel citato All Shook Down,
semmai cerca di scavare ancora più in profondità nel songwriting, per definirlo
stabilmente fra pulsioni pop e rock'n'roll dal passo frizzante. I suoni sono effettivamente
quelli già conosciuti nel recente passato, con una maggior inclinazione verso
la ballata agrodolce, in cui Westerberg sembra assumere il ruolo di un maestro,
fra confessioni e rimorsi raccontati con distacco e maturità. Una manciata di
pop rock dai toni crepuscolari, percorsi da frustrazioni, dubbi, insoddisfazioni,
che mettono in mostra però la voglia di rinascita del protagonista, dopo un decennio
di clamorosi eccessi, di incomprensioni e di una carriera gettata al vento dalla
propria stessa intemperanza. 14 Songs riesce ad essere incredibilmente fragile
e accogliente in episodi quali Runaway Wind o
Dice Behind Your Shades, ballate pop al velluto
che gridano a gran voce l'equilibrio raggiunto da Westerberg, mentre si fa più
aggressivo, conservando un briciolo dell'impenitente carattere, negli attacchi
frontali di World Class Fad e Something
in Me. In altri momenti il rocker di Minneapolis sembra voler perfezionare
le coordinate del sound degli ultimi Replecements: grazie anche al pianoforte
dell'ospite Ian McLagan (dagli amati Faces, guarda caso) Knockin'
on Mine, A Few Minute to Silence, Someone
Once I Knew non si allontanano dai fantasmi del passato, riproponendo
una ricetta simile: è un rock'n'roll nervoso, alcolico, figlio certamente del
punk ma addolcito da un gusto tutto speciale per melodie mediate dall'estetica
power pop. Sono brani quale la suadente Fisrt Glimmer,
lo scombinato boogie di Silver Nacked Ladies
o lo stravagante r&b di Mannequin Shop che
evidenziano la ricerca di nuovi orizzonti, pur restando nel tracciato della tradizione.
Riesce difficile per questo debutto confrontarsi con la storia e il lascito dei
Replacements, ma sarebbe anche disonesto non rinoscere la bellezza e la sintesi
dell'album nel suo complesso, sorta di ricomposizione tra i fremiti della lunga
stagione post punk e il classicismo della scrittura più stradaiola ed elettrica.
Al
crepuscolo degli anni 90 Paul Westerberg avvia un periodo di riflessione,
cercando nuovi stimoli per rilanciare una carriera solista impantanata, nonostante
emerga già chiarissima la capitale importanza della sua figura per la crescita
del rock d'autore all'interno della più recente generazione di songwriters. La
splendida rivincita, quanto meno sotto l'aspetto dell'ispirazione, giunge dunque
a stretto giro con Suicaine Gratifaction (gioco di parole e titolo
composito che affronta apertamente luci e ombre del personaggio), uscito nella
primavera del 1999 e immediatamente salutato come l'album più maturo di Westerberg.
In regia guida le danze Don Was, mentre il cambio di etichetta (ora la
gloriosa Capitol) sembra non influire sulle scelte artistiche di Paul, sceso adesso
definitivamente a patti con l'anima più intimista del songwriter, costruendo canzoni
diafane intorno alla sua voce spezzata e imprecisa e alla sua chitarra, ragionando
più sulla solitudine del paroliere che non sull'effetto formale. Per questo motivo
il risultato finale suona più scarno che in passato: il rock non è bandito dal
suo orizzonte, ma nell'economia generale del disco si fanno notare maggiormente
le piccole sfumature acustiche, le punteggiature del pianoforte, l'anima folkie
e il ruolo dei testi, specchio di un rocker ora riflessivo e orgoglioso padre
di famiglia (il figlio Johnny è nato un anno prima). It's
a Wonderful Lie e Self Defense
sono una coppia di ballate che si giocano tutto il loro fascino sugli equilibri
acustici fra chitarra e piano, con delicati interventi del violoncello e persino
di un corno francese. I nuovi punti di riferimento sembrano essere rintracciabili
nel primo Tom Waits, in Leonard Cohen, anche nel John Lennon solista dei primi
anni Settanta. Impressioni simili restano valide anche per Sunrise
Always Listens o il dolcissimo finale di Bookmark,
dove contano più i silenzi di tutto il resto. Born for Me e Actor
in the Street percorrono le strade di una morbida ballata, sostenuta
dal soffice tamburegiare di Jim Keltner, uno dei tanti musicisti di classe (tra
gli altri Bemmonth Tench dagli Heartbreakers di Tom Petty) che sottolineano la
svolta di Westerberg. Il rock'n'roll non è scomparso dal vocabolario di Paul,
ma contenuto e adattato alla nuova espressività di Suicaine Gratifaction. L'esaltante
timbro chitarristico di Lookin' Out Forever è
ad esempio una delle sferzate elettriche più belle del suo catalogo, mentre l'andamento
di Best Thing That Never Happened richiama
le atmosfere del Tom Petty più sornione, e infine Final Hurrah e Fugitive
Kind rendono palpabile l'intesa raggiunta con la scrittura rock più tradizionale.
È paradossale constatare che una tale sintesi abbia suscitato per l'ennesima volta
reazioni discordanti, se non una vera e propria indifferenza, provocata anche
dal riassesto discografico della Capitol,che finisce per condannare l'album in
un limbo, senza alcuna promozione. Abbandonato da tempo dal vecchio pubblico intrasigente
dell'hardcore punk, guardato a vista dalla critica più conservatrice, Westerberg
sembra abitare una terra di nessuno in cui il suo rock dal piglio inquieto e introspettivo
fa lentamente scuola, ma resta nell'ombra.
In
verità il primo bizzarro tentativo di sparigliare le carte della sua carriera
nella più totale indipendenza è la pubblicazione di un ep, sul finire del
1997, che non porta la sua personale firma, bensì viene misteriosamente attribuito
alla sigla Grandpaboy. Realizzato in totale indipendenza, il dischetto
torna a mostrare la faccia più grezza, goffa dell'artista, fuggendo da ogni dettaglio
produttivo. Il sound di Grandpaboy ricorda fin troppo bene gli esordi dei Replacements:
una furia rock garagista dove le chitarre si sentono forte e chiaro, le canzoni
sono improntate nella quasi totalità al disimpegno, un divertimento da festicciola
sgangherata che regala una manciata di rozzo rock'n'roll. Da qui riparte quella
sorta di "dopo lavoro" sotto pseudonimo che ritroveremo nel citato Mono. Il successivo
capitolo del suo alter ego ha il volto scanzonato, grezzo, sfacciatamente rock'n'roll
di Dead Man Shake. Il disco non è tuttavia la ripetizione di uno
schema provato nell'ep di esordio: la nuova firma per la Fat Possum rendere più
facili le spiegazioni. Questa volta Grandpaboy si infila nelle dodici battute
del blues e ovviamente lo fa alla sua maniera, con un suono garage e un po' raffazzonato.
In mezzo a tradizionali riadattati, cover d'eccezione (splendida la Souvenirs
di John Prine) e brani originali, Westerberg sguazza a meraviglia, giocando con
i fantasmi delle radici americane (geniale l'interpretazione del classico I'm
So Lonesome I Could Cry di Hank Williams). Qualcuno definisce "di maniera"
queste rivisitazioni ed è semplicemente incomprensibile: rock'n'roll primordiale
e gracchiante con MPLS, la stessa Dead Man Shake
e Get a Move On, un po' di Delta sound in Do
Right In Your Eyes (ed è sorpredente come Westerberg si sia calato
nel ruolo anche a livello di stile chitarristico). Vampires
& Failure trita il passato dei Replacements e li riduce ad uno scheletro:
sembra di sentire Keith Richards che si diverte a provare in cantina. No
Matter What You say tenta persino un improbabile slow-blues con risultati
a dir poco allucinati, prima di lasciare spazio all'elettricità più convincente
di Take Out Some Insurance, Cleaning House e
Natural Mean Lover, tris blues-rock che riporta al ruvido incedere degli Houserockers
del leggendario Houndog Taylor. Chiusura del sipario ubriaca e molto malinconica
con What Kind of Fool Am I?: Grandpaboy in
versione crooner è poco credibile tanto quanto nelle vesti di bluesman, eppure
lo scherzo di Dead Man Shake funziona e diverte.
L'iperattività da cui è travolto Paul Westerberg in questi anni potrebbe giocare brutti scherzi a chiunque, ma non all'ex Replacements, che rincara la dose della sua scrittura frenetica. La generosità della produzione viene bilanciata dalla formula spartana e artigianale con cui Paul riveste le sue canzoni. Folker aggiusta il tiro rispetto al fin troppo zoppicante predecessore, ma è figlio legittimo di questa stagione indipendente, con Westerberg assoluto mattatore a dimenarsi su qualsiasi strumento, imprimendo uno stile che è ormai un caposaldo a se stante del rock'n'roll americano. La sostanza di queste ballate straccione è la medesima che scaldava i cuori in Stereo, con l'agguinta però di tutta la "sporcizia rock" contenuta nei dischi a firma Grandpaboy, ormai il suo alter ego. Un po' di sorpresa quindi per chi avrebbe dedotto dal titolo un disco a tinte cantautorali, magari orientato su suoni acustici e intimisti apparsi in passato: Folker è certo infarcito di ballate, ma non rinuncia minimamente alle chitarre elettriche, anzi riempie ogni angolo disponibile con riff assassini e relativo canto al limite dell'equilibrio. Emblematico in tal senso il finale debordante di Folk Star: "I'm a folk star now" urla Paul, peccato che il rock'n'roll lo prenda ancora per la gola... La partenza invero confonde le idee: Jingle (Buy It) è uno scherzoso motivetto acustico - "this is my single, this is my jingle" - in cui Westerberg sembra ironizzare sulle potenzialità commerciali della sua musica, nulle ovviamente. Girato l'angolo però ci aspetta un altro disco, forse il più compiuto di questa sua seconda giovinezza, certamente il più godibile. Ci sono momenti di intensità assoluta, tra cui svetta la dedica al padre, recentemente scomparso, in My Dad, quello stesso uomo che non lo ha mai visto suonare dal vivo, così ci dice Paul. E ci sono liriche sempre più scarnificate, semplici, che parlano di un artista poco intellettuale e molto istintivo. Per questo forse si fa fatica a non lasciarsi trasportare dalle sue tremanti ballate, sempre pronte a scrosci elettrici (When Will We Arrive?, New Life, How Can You Like Him?), dai suoi ingenui rock'n'roll (As Far As I Know, puro Westerberg, Gun Shy, strepitosa), dalle sue confessioni talmente fragili (Looking Up in Heaven), che sfociano in canzoni imprecise e bellissime ($100 Groom). In fondo sono l'esatta fotografia della vita stessa di Paul Westerberg, un continuo peregrinare tra l'altare e la polvere. Che la seconda sia stata masticata a lungo dal nostro rimane un dato di fatto, al termine di questa lunga carrellata artistica. L'unica recente occasione per risalire verso lo stardom è difatti l'improbabile commissione di una colonna sonora per un film di animazione della Dreamworks, Opean Season ("Boog e Elliot a caccia di amici", nei cinema italiani nel 2006), dove Paul fa di tutto (e coscientemente) per non allinearsi al clichè di una soundtrack accattivante e commerciale. L'inclinazione è quella di sempre e il disco passa come uno stramplato divertissment, che in fondo si accoda alla sfuggente, scombinata figura del musicista, ormai una sorta di recluso eccellente del rock americano. Westerberg sembra ormai chiudere le porte in faccia a tutto e tutt (salvo firmare Ghost on Canvas, la title track per il disco d'addio alle scene di Glen Campbell, icona del country pop nashvilliano), portando alle estreme conseguenze il suo percorso di autarchia produttiva: gli ultimi segnali discografici in ordine di tempo rimangono infatti l'indecifrabile 49.00, album non album che viene promosso soltanto in formato digitale e venduto al prezzo si 49 cents sulla rete distributiva di Amazon, seguito a ruota dal non dissimile ep PW & The Ghost Gloves Cat Wing Joy Boys. Nel primo caso si tratta di quasi tre quarti d'ora di schegge, canzoni non rifinite, idee solo abbozzate e melodie senza soluzioni di continuità (il disco non ha divisioni fra i brani e "impone" un ascolto forzato dell'intera opera) che suonano a dir poco frustranti: bisogna scavare nel disordine mentale di Westerberg per cogliere brandelli del suo talento, qui davvero spintosi pericolosamente ai limiti di una provocazione fine a se stessa. Il fatto che da allora, anno di grazia 2008, su di lui si siano susseguite voci, notizie smentite, piccole apparizioni, ma senza mai concretizzarsi in un vero annuncio di un ritorno artistico, la dice lunga sulla fase interlocutoria che sta vivendo. Guardando in retrospettiva la sua carriera presentata in questa monografia, dovreste avere intuito che è una parte integrante della sua personalità, per cui noi restiamo sintonizzati in attesa di nuove mosse. | |||||
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