Paul Westerberg 
Knockin' on Mine
   

Look me in the eye/ And tell me that I'm satisfied/ Look me in the eye/ Unsatisfied
(Paul Westerberg, 1984 circa)

Un'intera generazione cresciuta fra la disillusione del post punk degli anni '80 continua miracolosamente il suo percorso, diventando essa stessa un punto di riferimento per i nuovi arrivati. Mentre Bob Mould celebra l'avventura Sugar e torna a far ruggire le chitarre, mentre J Mascis e i Dinosaur Jr prolungano una seconda giovinezza, mentre Stan Ridgway, Steve Wynn, Frank Black e altri talenti dell'epoca "alternativa" alimentano la loro carriera solista, uno solo sembra essersi eclissato, outsider per eccellenza e insofferente alle regole del music business: Paul Westerberg


:: Ritratto: la carriera solista
A cura di Fabio Cerbone

 

In pochi probabilmente avrebbero scommesso sugli sviluppi della carriera solista (o di qualsiasi carriera, se per questo...) di Paul Westerberg agli inizi degli anni 80: Minneapolis era il centro nevralgico più eccitante dell'undreground del periodo e la sua band di riferimento, The Replacements, girava in un furgone scassato mezza America diffondendo il verbo del punk rock più furioso, sgangherato e iconoclasta del momento. Illuminanti restano in tal senso le pagine dedicate ai Mats in American Indie (Arcana, 2010) dal critico Michael Azerrad, accorate, quasi struggenti nel descrivere l'innocenza scriteriata di quattro ragazzini (con Paul c'erano l'amico perduto Bobby Stinson, morto prematuramente, il fratellino di quest'ultimo, un imberbe Tommy Stinson e Chris Mars) innamorati del rock'n'roll più rozzo, ma trascinati in un vortice di rabbia giovane e insoddisfazione sociale (erano gli anni reaganiani, signori miei) che li spinge a crescere dentro uno stile di vita folle. In compagnia degli altri alfieri cittadini del genere, gli Husker Du di Bob Mould e Grant Hart, Westerberg assume involontariamente su di sé il ruolo di portavoce di una nuova nazione, passando in fretta dallo sconquasso punk degli esordi ad una maturazione intensa di parole e suoni, gli stessi che porteranno in dono veri e propri inni underground quali Unsatisfied e Bastards of Young e dischi quali Lei It Be e Tim.

Strano a dirsi, ma proprio Westerberg e Mould, dalle indomabili e dissonanti cavalcate elettriche delle loro band, riusciranno al termine della loro avvenura a indossare i panni inediti dei songwriter, spesso riflessivi e adulti, portando a compimento un percorso che in definitiva covava sotto le ceneri da un intero decennio. Una diversa stagione musicale certo, ma intensa e a suo modo essenziale quanto la prima furiosa epoca artistica della loro vita. Le somiglianze, pur fra caratteri diversissimi e naturalmente sensibilità opposte, in verità non si fermano qui: entrambi, infatti, evidenzieranno già negli ultimi anni di gloria dei loro gruppi una nuova attitudine sia nella musica, sia nei testi. Si placa la violenza giovanile e calano le sregolatezze e gli eccessi, non scompare però il loro anticonformismo, il loro distacco intelligente dal music business e la capacità di interpretare le ansie di un'intera generazione che ora sta crescendo, facendo i conti con un riflusso dei propri ideali.

Nel caso specifico Paul Westerberg avvia una ricostruzione affannata del sound dei Replacements, che spinge la band ad avvicinarsi maggiormente alla forma classica della canzone rock americana: il roboante rock di "Pleased to Meet Me", prodotto da Jim Dickinson con impeto da bar band, il controverso, malinconico pop di "Don't Tell a Soul" e soprattutto lo stupendo epitaffio di "All Shook Down", un salto nel mainstream rock americano dall'angolazione sghemba dei Mats (che andarono pure in tour con Tom Petty e gli Heartbreakers), sono le tappe principali di questo mutamento, che scopre piano piano quella ambivalente vicinanza della band verso il passato, il suo essere forse da sempre punk nell'attitudine ma "tradizionale" nell'educazione. Da una parte le frustate dell'hardcore e la sua rivoluzione brutale che prende vita dagli scantinati di Minneapolis, dall'altra l'amore per il rock'n'roll degli Stones e dei Faces e sopratutto per il power pop dei Big Star (Alex Chilton diverrà un nume tutelare e un'ossessione nella sua veste di loser per lo stesso Westerberg, che dedicherà all'artista scomparso nel 2010 una sorta di elegia, apparsa sulla pagine del New York Times). La bilancia si sposterà gradualmente, negli anni delle maturità, proprio verso il suono del classic rock americano, aprendo la stagione solista con dischi di grande spessore autoriale, mai tralasciando però quell'aria arruffata, imprecisa, da autentico loser che lo accompagnerà per tutta la sua sfortunata carriera.

Tra alti e bassi, consacrazioni, cadute e riconoscimenti artistici giunti soprattutto dall'interno del mondo rock, l'influenza di Paul Westerberg su una miriade di nuove leve del rockn'roll americano più periferico e alternativo sarà lampante con il passare delle stagioni. Impossibile, infatti, non leggere nell'emersione di figure quali Ryan Adams e Jeff Tweedy, così come nell'uscita dall'oscurità di diversi outsiders (da Matthew Ryan a Jesse Malin, fino ai più misconosciuti Kevin Salem o Robbie Fulks) alcune tracce del lavoro di Paul, peraltro apertamente elogiato dagli attestati di stima di coevi musicisti e non solo: dai superstiti dell'ondata hardcore Buffalo Tom e Soul Asylum, ai Cracker di David Lowery fino agli Hold Steady di Craig Finn, molti devono un pezzetto della loro storia prima ai Replacements e quindi allo stesso songwriting di Paul. Una celebrazione che può essere simbolicamente riassunta nella presenza stessa di Westerberg nella colonna sonora del generazionale lungometraggio "Singles" di Cameron Crowe, film del 1992 che fotografa la "Generazione X" dei primi anni '90, tra scossoni grunge e appunto un paio di episodi del padre putativo Paul Westerberg. L'esordio solista vero e proprio avverrà esattamente un anno dopo, costruito sulle ceneri di questo passaggio di testimone.

Per molti fu All Shook Down, addio discografico dei Replacements, l'effettivo debutto di Westerberg, vista la totale latitanza degli altri componenti nell'apporto compositivo e il suo dominio assoluto sul progetto insieme al produttore Scott Litt (da sempre legato ai REM). Una tesi quella dell'esordio sotto mentite spoglie che si avvicina parecchio alla verità se si osserva con attenzione il primo ufficiale disco a firma solista di Paul, che si fa largo fra la muraglia di produzioni grunge e l'esplosione dell'alternative rock nel 1993. 14 Songs, prodotto da Matt Wallace con una mano "leggera" e sensibile al guitar rock più classico, non si discosta moltissimo dalle intuizioni raggiunte nel citato All Shook Down, semmai cerca di scavare ancora più in profondità nel songwriting, per definirlo stabilmente fra pulsioni pop e rock'n'roll dal passo frizzante. I suoni sono effettivamente quelli già conosciuti nel recente passato, con una maggior inclinazione verso la ballata agrodolce, in cui Westerberg sembra assumere il ruolo di un maestro, fra confessioni e rimorsi raccontati con distacco e maturità. Una manciata di pop rock dai toni crepuscolari, percorsi da frustrazioni, dubbi, insoddisfazioni, che mettono in mostra però la voglia di rinascita del protagonista, dopo un decennio di clamorosi eccessi, di incomprensioni e di una carriera gettata al vento dalla propria stessa intemperanza. 14 Songs riesce ad essere incredibilmente fragile e accogliente in episodi quali Runaway Wind o Dice Behind Your Shades, ballate pop al velluto che gridano a gran voce l'equilibrio raggiunto da Westerberg, mentre si fa più aggressivo, conservando un briciolo dell'impenitente carattere, negli attacchi frontali di World Class Fad e Something in Me. In altri momenti il rocker di Minneapolis sembra voler perfezionare le coordinate del sound degli ultimi Replecements: grazie anche al pianoforte dell'ospite Ian McLagan (dagli amati Faces, guarda caso) Knockin' on Mine, A Few Minute to Silence, Someone Once I Knew non si allontanano dai fantasmi del passato, riproponendo una ricetta simile: è un rock'n'roll nervoso, alcolico, figlio certamente del punk ma addolcito da un gusto tutto speciale per melodie mediate dall'estetica power pop. Sono brani quale la suadente Fisrt Glimmer, lo scombinato boogie di Silver Nacked Ladies o lo stravagante r&b di Mannequin Shop che evidenziano la ricerca di nuovi orizzonti, pur restando nel tracciato della tradizione. Riesce difficile per questo debutto confrontarsi con la storia e il lascito dei Replacements, ma sarebbe anche disonesto non rinoscere la bellezza e la sintesi dell'album nel suo complesso, sorta di ricomposizione tra i fremiti della lunga stagione post punk e il classicismo della scrittura più stradaiola ed elettrica.

Non accortasi se non di striscio dello spessore di 14 Songs, ancora oggi uno dei vertici del rock americano d'autore di quegli anni, la critica continua a sbandierare le memorie di una Minneapolis che non esiste più. Paul non si scoraggia e continua il suo personale cammino veso la piena trasformazione come autore: obiettivo non facile e per nulla scontato, per un personaggio che mostra sempre più le sue idiosincrasie, il suo essere un outsider per eccellenza in balia di insofferenze che lo portano a sprecare occasioni, a confondere, a fare in fondo della sua insicurezza e persino della goffaggine uno stato dell'arte. Eventually, prodotto dallo stesso Westerberg con la parziale collaborazione di Brendan O'Brien (a rinsaldare il legame con la stagione grunge, visto che quest'ultimo arriva dai successi con i Pearl Jam) si fa attendere tre lunghi anni e vede la luce nel 1996, deludendo ancora in parte le spasmodiche attese. Sembra dunque un destino quello di suscitare costantemente incomprensioni e paragoni insostenibili. Anche il nuovo disco soffre del raffronto con il passato: in questo caso le critiche sono tuttavia parzialmente giustificate da un drappello di canzoni che ripetono fin troppo sfacciatamente gli schemi collaudati, forse sintomo di incertezza artistica. Sia chiaro, il tasso qualitativo di Eventually rimane più che diginitoso, una manciata di brani che riesce ancora una volta a comunicare l'espressività di Westerberg, il suo ritagliarsi uno spazio "altro" rispetto alla santificazione del mito Replacemets. Ciò che manca davvero è la sorpresa, dentro un sound saldamente ancorato all'idea di un pop rock aggressivo e chitarristico (Paul è affiancato dalla sezione ritmica dei Cracker, Michael Urbano e Davey Faragher), in altri frangenti più incline alla tenerezza acustica. La ballata dai colori autunnali sembra essere nondimeno la dimensione preferita dall'autore in questo periodo: è facile farsi cullare dalla poesia bislacca di Love Untold, Mamma Daddy Did, Once Around the Weekend, deliziosi affreschi di uno stile pop malinconico e ora più che mai riconoscibile. Le iniziali These Are the Days e Century suonano più mosse e cercano un approdo differente, senza allontanarsi però realmente dai traguardi di 14 Songs. Anche l'inclusione di una stralunata Trumpet Clip ricalca a suo modo le intuizioni di un brano quale Mannequin Shop, mentre l'energia rock'n'roll di You've Had It with You, Stain Yer Blood e Ain't Got Me non fa che alimentare i vecchi giorni di gloria dei Mats.

Al crepuscolo degli anni 90 Paul Westerberg avvia un periodo di riflessione, cercando nuovi stimoli per rilanciare una carriera solista impantanata, nonostante emerga già chiarissima la capitale importanza della sua figura per la crescita del rock d'autore all'interno della più recente generazione di songwriters. La splendida rivincita, quanto meno sotto l'aspetto dell'ispirazione, giunge dunque a stretto giro con Suicaine Gratifaction (gioco di parole e titolo composito che affronta apertamente luci e ombre del personaggio), uscito nella primavera del 1999 e immediatamente salutato come l'album più maturo di Westerberg. In regia guida le danze Don Was, mentre il cambio di etichetta (ora la gloriosa Capitol) sembra non influire sulle scelte artistiche di Paul, sceso adesso definitivamente a patti con l'anima più intimista del songwriter, costruendo canzoni diafane intorno alla sua voce spezzata e imprecisa e alla sua chitarra, ragionando più sulla solitudine del paroliere che non sull'effetto formale. Per questo motivo il risultato finale suona più scarno che in passato: il rock non è bandito dal suo orizzonte, ma nell'economia generale del disco si fanno notare maggiormente le piccole sfumature acustiche, le punteggiature del pianoforte, l'anima folkie e il ruolo dei testi, specchio di un rocker ora riflessivo e orgoglioso padre di famiglia (il figlio Johnny è nato un anno prima). It's a Wonderful Lie e Self Defense sono una coppia di ballate che si giocano tutto il loro fascino sugli equilibri acustici fra chitarra e piano, con delicati interventi del violoncello e persino di un corno francese. I nuovi punti di riferimento sembrano essere rintracciabili nel primo Tom Waits, in Leonard Cohen, anche nel John Lennon solista dei primi anni Settanta. Impressioni simili restano valide anche per Sunrise Always Listens o il dolcissimo finale di Bookmark, dove contano più i silenzi di tutto il resto. Born for Me e Actor in the Street percorrono le strade di una morbida ballata, sostenuta dal soffice tamburegiare di Jim Keltner, uno dei tanti musicisti di classe (tra gli altri Bemmonth Tench dagli Heartbreakers di Tom Petty) che sottolineano la svolta di Westerberg. Il rock'n'roll non è scomparso dal vocabolario di Paul, ma contenuto e adattato alla nuova espressività di Suicaine Gratifaction. L'esaltante timbro chitarristico di Lookin' Out Forever è ad esempio una delle sferzate elettriche più belle del suo catalogo, mentre l'andamento di Best Thing That Never Happened richiama le atmosfere del Tom Petty più sornione, e infine Final Hurrah e Fugitive Kind rendono palpabile l'intesa raggiunta con la scrittura rock più tradizionale. È paradossale constatare che una tale sintesi abbia suscitato per l'ennesima volta reazioni discordanti, se non una vera e propria indifferenza, provocata anche dal riassesto discografico della Capitol,che finisce per condannare l'album in un limbo, senza alcuna promozione. Abbandonato da tempo dal vecchio pubblico intrasigente dell'hardcore punk, guardato a vista dalla critica più conservatrice, Westerberg sembra abitare una terra di nessuno in cui il suo rock dal piglio inquieto e introspettivo fa lentamente scuola, ma resta nell'ombra.

Chiuso il conto con la fortuna e soprattutto con i piani alti del business musicale, che non sa più che farsene di un personaggio dal piglio così naif ed esistenzialista, Westerberg passa direttamente dalla produzione di Don Was al fondo scala di Stereo e Mono, due facce speculari di un artista autarchico (e per questo contraddittorio) come pochi. C'è tutta la vita di un artista nelle note imprecise e nelle melodie arruffate dei due album, inizialmente distinti fra l'idendità principale e quella di Grandpaboy (Mono), poi riuniti scientemente sotto lo stesso tetto. Stereo è il volto intimista, perduto e romantico, infarcito di ballate agrodolci, riflessioni amorose da uomo in piena maturità della vita. Per sentire una batteria bisogna aspettare il quinto brano e l'attesa è ripagata da una No Place For You che si svela Westerberg all'ennesima potenza. Prima e dopo canzoni umide e raffazzonate (Baby Learns to Crawl e Only Lie Worth Telling), e proprio per questo sorprendenti, che stanno in piedi con una produzione inesistente, una coppia di chitarre ed una voce che spiega più di ogni altra cosa perchè l'artista Westerberg sia un patrimonio da conservare. Sul finale torna un pizzico di eccentricità nella scanzonata Mr. Rabbit, qualche ritmica più accesa in Call That Gone e Let The Bad Times Roll, dove soffia forte il vento dei Replacements, senza tralasciare la sorpresa di una ruvida e devastante ghost track tutta da scoprire. Mono, come detto, è l'altra faccia della medaglia, ma solo in termini di esposizione sonora, perchè qui è ancora tutto ridotto all'osso: rock'n'roll fragoroso, chitarre secche e melodia struggente fin dalla partenza con la classicissima High Time. Si apre il libro dei ricordi, agganci continui alla migliore stagione dei Mats, tanto che pare di assistere ad una reunion sul crinale Tim - Pleased To Meet Me. Una scorpacciata di scalcagnato rock'n'roll (da sentirsi i riff assasini di Anything But That e Knock It Right Out) che non può non scatenare antichi bollori sopiti. La filosofia del "do it yourself" (e andrebbe aggiunto del "just for fun") sembra a questo punto una reazione incontrollata a tutte le delusioni e all'indifferenza dei primi anni solisti. Molla propulsiva nella storia del rock'n'roll (basterebbe ricordarsi che Westerberg arriva in fondo dalla rivoluzione hardcore punk), quando rimessa nelle mani di autori intelligenti e disincantati, è capace di sprigionare autoironia e sberleffo.

In verità il primo bizzarro tentativo di sparigliare le carte della sua carriera nella più totale indipendenza è la pubblicazione di un ep, sul finire del 1997, che non porta la sua personale firma, bensì viene misteriosamente attribuito alla sigla Grandpaboy. Realizzato in totale indipendenza, il dischetto torna a mostrare la faccia più grezza, goffa dell'artista, fuggendo da ogni dettaglio produttivo. Il sound di Grandpaboy ricorda fin troppo bene gli esordi dei Replacements: una furia rock garagista dove le chitarre si sentono forte e chiaro, le canzoni sono improntate nella quasi totalità al disimpegno, un divertimento da festicciola sgangherata che regala una manciata di rozzo rock'n'roll. Da qui riparte quella sorta di "dopo lavoro" sotto pseudonimo che ritroveremo nel citato Mono. Il successivo capitolo del suo alter ego ha il volto scanzonato, grezzo, sfacciatamente rock'n'roll di Dead Man Shake. Il disco non è tuttavia la ripetizione di uno schema provato nell'ep di esordio: la nuova firma per la Fat Possum rendere più facili le spiegazioni. Questa volta Grandpaboy si infila nelle dodici battute del blues e ovviamente lo fa alla sua maniera, con un suono garage e un po' raffazzonato. In mezzo a tradizionali riadattati, cover d'eccezione (splendida la Souvenirs di John Prine) e brani originali, Westerberg sguazza a meraviglia, giocando con i fantasmi delle radici americane (geniale l'interpretazione del classico I'm So Lonesome I Could Cry di Hank Williams). Qualcuno definisce "di maniera" queste rivisitazioni ed è semplicemente incomprensibile: rock'n'roll primordiale e gracchiante con MPLS, la stessa Dead Man Shake e Get a Move On, un po' di Delta sound in Do Right In Your Eyes (ed è sorpredente come Westerberg si sia calato nel ruolo anche a livello di stile chitarristico). Vampires & Failure trita il passato dei Replacements e li riduce ad uno scheletro: sembra di sentire Keith Richards che si diverte a provare in cantina. No Matter What You say tenta persino un improbabile slow-blues con risultati a dir poco allucinati, prima di lasciare spazio all'elettricità più convincente di Take Out Some Insurance, Cleaning House e Natural Mean Lover, tris blues-rock che riporta al ruvido incedere degli Houserockers del leggendario Houndog Taylor. Chiusura del sipario ubriaca e molto malinconica con What Kind of Fool Am I?: Grandpaboy in versione crooner è poco credibile tanto quanto nelle vesti di bluesman, eppure lo scherzo di Dead Man Shake funziona e diverte.

Dimostrando una assoluta noncuranza delle regole del mercato, Paul Westerberg prosegue a questo punto imperterrito il suo febbricitante periodo di ispirazione, dando alle stampe qualsiasi cosa gli passi per la mente. Non si è fatto ancora in tempo ad apprezzare la discesa negli inferi del blues con lo pseudonimo di Grandpaboy che ci ritroviamo tra le mani un nuovo lavoro a firma solista. Come Feel Me Tremble è in verità concepito come colonna sonora per l'uscita in contemporanea di un omonimo dvd, testimonianza del tour acustico e solitario del 2002. Veniamo ancora una volta trascinati dalla furia rock'n'roll che ha rianimato il suo songwriting recente: Come Feel Me Tremble è figlio legittimo di Mono. Stesse chitarre assassine, stessa informalità negli arrangiamenti, in pratica inesisenti, ed una voglia matta di resuscitare la semplicità dei primi Replacements in chiave roots pop, se così si può definire. L'impressione generale che suscitano la devastante elettricità di Pine Box o il granitico guitar-rock di Making Me Go e Soldier of Misfortune è proprio quella di una rispolverata al suo vecchio catalogo. L'album è la testimonianza di un eroe dell'understatment rock, un loser per natura e per scelta, che ha sperperato le sue enormi potenzialità in nome di una vita sempre sul filo del rasoio. Qui è un cane sciolto capace di scrivere ballate sanguinanti come la pianistica Never Felt Like This Before, fragili quanto Meet Me Down the Alley e What a day (For a Night), di interpretare These Days (Jackson Browne) come fosse sua e di mischiarle alla spavalderia rock'n'roll di Dirty Diesel (I'm dirty diesel/ pumpin' down the line), Wild & Lethal (Cause I'm wild and lethal/ I'm a mile deep though/ There ain't a bank that can hold me back) e Hillbilly Junk, rockacci con la benzina dei Faces nel motore ed una voce che non bada alle rifiniture. Nella sua arruffata figura Paul Westerberg si mostra così, prendere o lasciare: incide un disco senza note (avrà suonato tutto lui?), con una scaletta errata che confonde la sequenza delle canzoni (almeno nella prima versione che a suo tempo mi capitò per le mani) e con una copertina quanto meno "discutibile". Siamo ai limiti della provocazione e certamente Come Feel Me Tremble appartiene ai progetti più imprecisi della sua discografia, ma nella confusione emergono autentiche perle.

L'iperattività da cui è travolto Paul Westerberg in questi anni potrebbe giocare brutti scherzi a chiunque, ma non all'ex Replacements, che rincara la dose della sua scrittura frenetica. La generosità della produzione viene bilanciata dalla formula spartana e artigianale con cui Paul riveste le sue canzoni. Folker aggiusta il tiro rispetto al fin troppo zoppicante predecessore, ma è figlio legittimo di questa stagione indipendente, con Westerberg assoluto mattatore a dimenarsi su qualsiasi strumento, imprimendo uno stile che è ormai un caposaldo a se stante del rock'n'roll americano. La sostanza di queste ballate straccione è la medesima che scaldava i cuori in Stereo, con l'agguinta però di tutta la "sporcizia rock" contenuta nei dischi a firma Grandpaboy, ormai il suo alter ego. Un po' di sorpresa quindi per chi avrebbe dedotto dal titolo un disco a tinte cantautorali, magari orientato su suoni acustici e intimisti apparsi in passato: Folker è certo infarcito di ballate, ma non rinuncia minimamente alle chitarre elettriche, anzi riempie ogni angolo disponibile con riff assassini e relativo canto al limite dell'equilibrio. Emblematico in tal senso il finale debordante di Folk Star: "I'm a folk star now" urla Paul, peccato che il rock'n'roll lo prenda ancora per la gola... La partenza invero confonde le idee: Jingle (Buy It) è uno scherzoso motivetto acustico - "this is my single, this is my jingle" - in cui Westerberg sembra ironizzare sulle potenzialità commerciali della sua musica, nulle ovviamente. Girato l'angolo però ci aspetta un altro disco, forse il più compiuto di questa sua seconda giovinezza, certamente il più godibile. Ci sono momenti di intensità assoluta, tra cui svetta la dedica al padre, recentemente scomparso, in My Dad, quello stesso uomo che non lo ha mai visto suonare dal vivo, così ci dice Paul. E ci sono liriche sempre più scarnificate, semplici, che parlano di un artista poco intellettuale e molto istintivo. Per questo forse si fa fatica a non lasciarsi trasportare dalle sue tremanti ballate, sempre pronte a scrosci elettrici (When Will We Arrive?, New Life, How Can You Like Him?), dai suoi ingenui rock'n'roll (As Far As I Know, puro Westerberg, Gun Shy, strepitosa), dalle sue confessioni talmente fragili (Looking Up in Heaven), che sfociano in canzoni imprecise e bellissime ($100 Groom). In fondo sono l'esatta fotografia della vita stessa di Paul Westerberg, un continuo peregrinare tra l'altare e la polvere.

Che la seconda sia stata masticata a lungo dal nostro rimane un dato di fatto, al termine di questa lunga carrellata artistica. L'unica recente occasione per risalire verso lo stardom è difatti l'improbabile commissione di una colonna sonora per un film di animazione della Dreamworks, Opean Season ("Boog e Elliot a caccia di amici", nei cinema italiani nel 2006), dove Paul fa di tutto (e coscientemente) per non allinearsi al clichè di una soundtrack accattivante e commerciale. L'inclinazione è quella di sempre e il disco passa come uno stramplato divertissment, che in fondo si accoda alla sfuggente, scombinata figura del musicista, ormai una sorta di recluso eccellente del rock americano. Westerberg sembra ormai chiudere le porte in faccia a tutto e tutt (salvo firmare Ghost on Canvas, la title track per il disco d'addio alle scene di Glen Campbell, icona del country pop nashvilliano), portando alle estreme conseguenze il suo percorso di autarchia produttiva: gli ultimi segnali discografici in ordine di tempo rimangono infatti l'indecifrabile 49.00, album non album che viene promosso soltanto in formato digitale e venduto al prezzo si 49 cents sulla rete distributiva di Amazon, seguito a ruota dal non dissimile ep PW & The Ghost Gloves Cat Wing Joy Boys. Nel primo caso si tratta di quasi tre quarti d'ora di schegge, canzoni non rifinite, idee solo abbozzate e melodie senza soluzioni di continuità (il disco non ha divisioni fra i brani e "impone" un ascolto forzato dell'intera opera) che suonano a dir poco frustranti: bisogna scavare nel disordine mentale di Westerberg per cogliere brandelli del suo talento, qui davvero spintosi pericolosamente ai limiti di una provocazione fine a se stessa. Il fatto che da allora, anno di grazia 2008, su di lui si siano susseguite voci, notizie smentite, piccole apparizioni, ma senza mai concretizzarsi in un vero annuncio di un ritorno artistico, la dice lunga sulla fase interlocutoria che sta vivendo. Guardando in retrospettiva la sua carriera presentata in questa monografia, dovreste avere intuito che è una parte integrante della sua personalità, per cui noi restiamo sintonizzati in attesa di nuove mosse.

 
:: Discografia (riepilogo)


Paul Westerberg
14 Songs (Sire/Reprise 1993)   8.5
Eventually (Reprise 1996)   6.5
Suicaine Gratifaction (Capitol 1999)   8.5
Stereo/ Mono (Vagrant 2002)   8
Come Feel Me Tremble (Vagrant 2003)   6.5
Folker (Vagrant 2004)   7
Open Season [Original Soundtrack] (Mercury / Lost Highway 2006) 6.5
49:00 (Dry Wood Music 2008) 5.5

Grandpaboy

Grandpaboy (Monolyth 1997)   6.5
Mono (Vagrant 2002)   8
Dead Man's Shake ( Fat Possum 2002)  7




"Here Comes a Regular" - Replacements' classic song



"Runaway Wind" - Official video 1993



"Dyslexic Heart" - from Singles Original Soundtrack


<Credits>