Marcello Milanese -Like
a Wolf in a Chicken Shack [Helleluja
Records 2011] Andrea Sacchi & Paolo
Terlingo - Magdalen
[Ultra
Sound 2011] No overbuds, no pedal effects, no electronic tricks: è da ritenersi il
manifesto programmatico, definiamolo così, di Like a Wolf in a Chicken Shack,
disco interamente dedicato all'anima acustica del blues, pur uscendo volentieri
dai sentieri canonici dei maestri del genere per "piegare" diversi autori alla
voce e alla chitarra di Marcello Milanese. Già conosciuto su queste pagine
per il progetto Black Smokers, duo di urticante downhome punk blues elettrico,
il musicista allessandrino torna all'essenza delle radici, scarnificando del tutto
la sua musica. Armato di sola chitarra (anche resonator, sulle tracce del più
classico del Delta blues) e stomp box, si inventa la sua personale orchestra in
una seduta dal vivo dove niente è ripulito e tutto invece congiura per la sporcizia
del suono e la sincerità dell'esecuzione. Giusto così, va amesso, soprattutto
se si affronta la materia dall'angolazione un po' spigolosa e sulfurea di Milanese:
voce interessante, rauca e vagamente "waitsiana", bene si adatta a questo atteggiamento
del "fatto in casa" e con pochi mezzi. Gli esiti pagano chiaramente l'impostazione
voluta dal chitarrista, trovando nei brani originali un giusto compromesso, mentre
non sempre riuscendo a domare il repetorio altrui. Nel primo caso si parte convinti
nell'avvolgente clima sudista della title track, proseguendo con la ritmica e
nervosa Medicine Man e abbandonandosi all'animosità
di Hang me Higher, compreso il canto. Nel
secondo invece si registrano episodi più naturali per il pathos vocale di Milanese,
come la scura Ain't Afraid of Midnight del
compianto, indimenticabile John Campbell o la riproposizione di Jesus
Gonna Be Here di Tom Waits, e altri non completamente messi a fuoco
tra cui Cry To Me e That's
Alright Mama, in generale difficili da domare nell'abito scarno del
disco (ad esempio il classico di Johnny Cash Ring of
Fire o Halleluja I Love Her So
di Ray Charles). Più apprezzabile il trattamento strumentale riservato al noto
inno gospel Amazing Grace, che idealmente
si riallaccia alle atmosfere finali di Slides From Mars.
(6.5) (Fabio
Cerbone)
In
pausa dal progetto elettrico The Rude Mood - arricchito da un recente disco
dal vivo catturato nel corso di un tour irlandese - la coppia Andrea
Sacchi (armoniche) e Paolo Terlingo (chitarre) torna a sviluppare la
parallela visione acustica, che già aveva dato i suoi frutti in Seven Days (Blues
Inclusive). Il nuovo episodio si intitola Magadalen e lungo un percorso
di tredici tracce alterna ballate che incrociano al largo la radice blues dei
musicisti e strumentali di raccordo che possiedono un fascino quasi mediterraneo
nella loro struttura. Non è esattamente un lavoro legato al genere di riferimento
di Sacchi e Terlingo e ciò fa onore alla loro volontà di scompaginare un po' le
aspettative: con una voce interessante, anche se bisognosa ancora di una qualche
modulazione, Paolo Terlingo scrive musiche e testi cercando una forma elegante
di ballata folk, con sfumature jazzy e notturne, introducendo il mood generale
di Magdalen fin dalle prime battute di Narrow Strips
of Sunlight e Enjambement. Tra
le pieghe, come anticipato, qualche strumentale sembra legare l'intera scaletta,
esaltando in Etude Un e Etude
Trois o nella stessa title track le qualità strumentali del duo. Andrea
Sacchi dipinge trame raffinate con diatonica e cromatica, utilizzando l'armonica
non tanto come un semplice strumento solista, piuttosto come un vero e proprio
elemento aggiunto ai colori delle canzoni. Ed è proprio qui che in parte cominciano
ad emergere i limiti di Magdalen: disco dal sicuro fascino, inciso fra l'altro
con un suono ricco e pastoso sulle chitarre, ma che pare inchiodarsi ad una formula
eccesivamente monotona. Sulla distanza infatti, eccezione per una slide e un profumo
un po' cooderiano in Inside Blues, le ambientazioni
musicali delle varie Why, Mind
Wonders, The Chalice tendono a
ripetersi con schemi interpretativi che rendono i toni autunnali, i chiaroscuri
stessi dell'album troppo monocordi. (6.5) (Fabio
Cerbone)