Di chitarristi blues che finiscono ad abbracciare
il mondo della cosiddetta “americana” ne abbiamo visti tanti, anche
in Italia (penso a Paolo Bonfanti, per dirne uno tra i tanti), e non
fa eccezione anche il romagnolo J. Sintoni. Di fatto il suo nuovo
album Backroads, chiarificatore sul contenuto fin da titolo
e copertina, completa il passaggio già iniziato dal precedente Relief
del 2017, dove la collaborazione ormai continuativa con Grayson Capps
si faceva sentire parecchio (e complice anche la produzione dell’esperta
Trina Shoemaker). Ma qui il salto verso una visione musicale che potrebbe
avvicinarlo quasi al Dave Alvin più innamorato della tradizione, si
completa, e ormai il suono è davvero lontano da quello del suo album
Better Man del 2012, immerso com’era nella rigida grammatica
del blues elettrico.
L’ossatura delle canzoni ruota comunque ancora intorno alle sue chitarre,
sebbene lui sia sempre meno portato all’esibizione di assoli, e ad una
sezione ritmica che lo vede impegnato anche al basso, in aggiunta alla
batteria di Angelica Comandini. Il disco però si avvale anche di una
serie di prestigiosi interventi che arrivano sia dalla scena nostrana
(l’armonica di Marco Pandolfi, il violino di Elisa Semprini, il banjo
di Thomas Guiducci e il piano di Gianluca Morelli), sia da qualche amico
straniero come il da noi molto seguito Buford Pope, l’ex Blue Mountain
Cary Hudson, Corky Hughes, Katrina Miller e lo svedese Rickard Alerstedt
con i suoi importanti interventi alla pedal steel guitar.
Ma se le connessioni del periodo di lockdown hanno permesso di riunire
una squadra di primo livello, non sfugge quanto il disco sia davvero
un encomiabile sforzo solista di Sintoni, che canta anche con più convinzione
(e, detto nel senso positivo del termine, anche con più “mestiere” di
un tempo), e si è evidentemente concentrato nello scrivere dieci brani
più che validi che racchiudessero un po’ tutte le anime di quella musica
americana che tanto lo influenza. E così se Hope
sa di puro country-rock d’annata, When I Go Home lo riporta sui
già esplorati territori di un gospel-blues alla Capps, ma già The
Lighthouse, brano lento e intenso, fa capire quanto anche
abbia velleità da autore puro. Le influenze di country music restano
comunque le più evidenti (Let’s Try To Get Lost, Country AF),
anche se il finale di Take This Song
ricorda più le ballate West-Coast anni settanta alla Jim Croce, stile
che tra l’altro si adatta ancor meglio alla sua voce.
Una volta chiesero al cantante afroamericano Charley Pride (scomparso
pochi mesi fa per il Covid-19) come si fosse sentito ad essere il primo
artista “di colore” ammesso al Grand Ole Opry di Nashville (era il 1967),
e lui rispose che il Country si era evoluto talmente tanto che era ormai
diventato una stanza abbastanza larga per farci stare tutti. Anche in
Italia ci stiamo cominciando ad entrare con sempre più consapevolezza
e rispetto, e Backroads si conquista il suo spazio in
quella grande stanza.