Allman Brothers Band
Live at Beacon Theatre

Allman Brothers Band
One Way Out - Live at Beacon Theatre
(Sanctuary 2003)

 

Non si può dire che gli Allmans abbiano mai attraversato grosse crisi in termini di popolarità o di dischi venduti. Anzi, basta dare un'occhiata in rete per rendersi conto del fatto che intorno a loro è tutto un fiorire di siti, affettuosi tributi e trees dediti allo smercio dei più remoti boot(leg)s. Che tuttavia non facessero un disco degno del loro nome da parecchio tempo, live esclusi (ma lo stesso Peakin' At The Beacon del 2000 non era poi granché), questo è altrettanto vero. Il monumentale Hittin' The Note, giusto un anno fa, ci ha però riconsegnato una band in forma smagliante, viva e convinta come non capitava di sentire da tempo, ed è quindi un sollievo constatare che One Way Out conferma la persistenza di un simile momento magico.

Il cambiamento più radicale a riguardare il gruppo nell'ultimo biennio resta, ovviamente, la dipartita di uno dei suoi membri storici, ovverosia Dickey Betts; suggerito da Gregg Allman e concordato con il resto del band, motivato a causa dell'instabilità e della crescente inaffidabilità del chitarrista, tale azzardo strutturale si è rivelato inaspettatamente felice. Il perché è presto spiegato: allontanato Betts, le redini del songwriting e il ruolo da direttore d'orchestra, per quanto discreto e avaro di narcisismi, sono state tirate con fermezza dal leader dei Gov't Mule Warren Haynes, un personaggio la cui ispirazione e il cui talento non hanno ancora mostrato segni di cedimento alcuno. Intendiamoci, passato il timone a Haynes, in via effettiva se non formale, gli Allmans sono diventati (quasi) un'altra band, probabilmente migliore ma senz'altro differente.

Gli "Allmans brand 2004" sono più hard, squadrati e heavy di un tempo, le loro improvvisazioni sono meno sfilacciate rispetto a quelle del trascorso decennio, il suono è molto compatto e violento, assai meno rootsy che in passato. Un po' come se tutta la band - Gregg Allman (B3, piano, chitarra acustica e voce), Warren Haynes (chitarra solista, slide, voce), Oteil Burbridge (basso), Marc Quinones (percussioni), Derek Trucks (solista e slide), Butch Trucks e Jaimoe (cioè la doppia batteria) - si fosse autoimposta un clean-up generale che, se può aver lontanamente sottratto qualche spicciolo di fantasia, ha comunque ottenuto il risultato di portarli a un livello di carica, dinamismo, potenza e precisione terrificanti. Un risultato, lo ribadisco, che ci permette di tornare nuovamente a gustare in tutte le sue sfumature un gruppo che sembra aver trovato il senso ultimo del proprio fare musica in una dedizione rinnovata, assoluta e totalizzante nei confronti delle canzoni. Quelle che colpiscono di più, al di là degli intoccabili classici (immensa Midnight Rider, con Allman protagonista), sono proprio le tracce nuove; quelle che avrebbero potuto in teoria suonare meno disinvolte e invece finiscono col ratificare in definitiva l'affiatamento dell'attuale line-up. La sinuosa Desdemona, per esempio, parte con le movenze feline di una piccola nugget dell'età d'oro del soul per poi evolvere in uno spettacolare vortice jazz e terminare rientrando sui binari del più torrido rock-blues, mentre la più canonica High Cost Of Low Living soffia il vento di Chicago che è un piacere. Lo stesso discorso vale per il saliscendi ritmico di una Woman Across The River a dir poco trascinante, tutta giocata su repentini cambi di tempo e sugli infiammati duelli chitarristici di Haynes e Trucks, oppure, all'opposto, per il tradizionalismo mai passatista di una semiacustica e struggente Old Before My Time.

Stupefacente, poi, è la lunga cavalcata di Instrumental Illness, con una sezione ritmica scatenata che a cinque minuti dalla fine si produce in un bollente sipario latineggiante che non può non ricordare i momenti migliori di Santana, perlomeno quelli dei tempi in cui il grande Carlos aveva ancora tutte le sinapsi ben connesse tra di loro. D'altro canto, per quanto riguarda le signature-songs, ognuno può scegliersi la propria all'interno di un repertorio oramai consegnato alla leggenda del rock eppure tutt'altro che imbalsamato. Non potevano mancare quelle due o tre pagine - Statesboro Blues (che tutti pensiamo sia degli Allmans quando in realtà appartiene a Blind Willie McTell), Good Morning Little Schoolgirl (Sonny Boy Williamson), Trouble No More (Muddy Waters) - magnificamente rilette dalla storia del blues e proposte in versioni al solito stellari. Difficile non citare pezzi epocali come il notturno sudista di Dreams o la travolgente Whippin' Post, ma a simboleggiare l'intera operazione scelgo la ruvidissima Wasted Words, gravida di chilometrici solos, stacchi e ripartenze della sezione ritmica, e perciò perfetta nel rendere testimonianza del fenomenale interplay della band.

Il piacere, sia detto per inciso, non risiede solamente nell'aver ascoltato un ottimo disco, bensì nel trovarsi, ancora e di nuovo, faccia a faccia con un gruppo la cui giustificazione sta tutta sulle assi del palcoscenico, un gruppo le cui celebrazioni live trovano attori imprescindibili nei musicisti che le officiano come nel pubblico che vi assiste. La cosa importante, insomma, è sentirsi di nuovo parte di una famiglia. Che dio ce la conservi il più a lungo possibile.
(Gianfranco Callieri)

www.allmanbrothersband.com
www.hittinthenote.com


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