Non
si può dire che gli Allmans abbiano mai attraversato grosse crisi in termini
di popolarità o di dischi venduti. Anzi, basta dare un'occhiata in rete per rendersi
conto del fatto che intorno a loro è tutto un fiorire di siti, affettuosi tributi
e trees dediti allo smercio dei più remoti boot(leg)s. Che tuttavia non facessero
un disco degno del loro nome da parecchio tempo, live esclusi (ma lo stesso Peakin'
At The Beacon del 2000 non era poi granché), questo è altrettanto vero. Il monumentale
Hittin' The Note,
giusto un anno fa, ci ha però riconsegnato una band in forma smagliante, viva
e convinta come non capitava di sentire da tempo, ed è quindi un sollievo constatare
che One Way Out conferma la persistenza di un simile momento magico.
Il cambiamento più radicale a riguardare il gruppo nell'ultimo biennio
resta, ovviamente, la dipartita di uno dei suoi membri storici, ovverosia Dickey
Betts; suggerito da Gregg Allman e concordato con il resto del band, motivato
a causa dell'instabilità e della crescente inaffidabilità del chitarrista, tale
azzardo strutturale si è rivelato inaspettatamente felice. Il perché è presto
spiegato: allontanato Betts, le redini del songwriting e il ruolo da direttore
d'orchestra, per quanto discreto e avaro di narcisismi, sono state tirate con
fermezza dal leader dei Gov't Mule Warren Haynes, un personaggio la cui
ispirazione e il cui talento non hanno ancora mostrato segni di cedimento alcuno.
Intendiamoci, passato il timone a Haynes, in via effettiva se non formale, gli
Allmans sono diventati (quasi) un'altra band, probabilmente migliore ma senz'altro
differente.
Gli "Allmans brand 2004" sono più hard, squadrati e heavy
di un tempo, le loro improvvisazioni sono meno sfilacciate rispetto a quelle del
trascorso decennio, il suono è molto compatto e violento, assai meno rootsy che
in passato. Un po' come se tutta la band - Gregg Allman (B3, piano, chitarra
acustica e voce), Warren Haynes (chitarra solista, slide, voce), Oteil
Burbridge (basso), Marc Quinones (percussioni), Derek Trucks (solista
e slide), Butch Trucks e Jaimoe (cioè la doppia batteria) - si fosse
autoimposta un clean-up generale che, se può aver lontanamente sottratto qualche
spicciolo di fantasia, ha comunque ottenuto il risultato di portarli a un livello
di carica, dinamismo, potenza e precisione terrificanti. Un risultato, lo ribadisco,
che ci permette di tornare nuovamente a gustare in tutte le sue sfumature un gruppo
che sembra aver trovato il senso ultimo del proprio fare musica in una dedizione
rinnovata, assoluta e totalizzante nei confronti delle canzoni. Quelle che colpiscono
di più, al di là degli intoccabili classici (immensa Midnight Rider, con
Allman protagonista), sono proprio le tracce nuove; quelle che avrebbero potuto
in teoria suonare meno disinvolte e invece finiscono col ratificare in definitiva
l'affiatamento dell'attuale line-up. La sinuosa Desdemona, per esempio,
parte con le movenze feline di una piccola nugget dell'età d'oro del soul per
poi evolvere in uno spettacolare vortice jazz e terminare rientrando sui binari
del più torrido rock-blues, mentre la più canonica High Cost Of Low Living
soffia il vento di Chicago che è un piacere. Lo stesso discorso vale per il saliscendi
ritmico di una Woman Across The River a dir poco trascinante, tutta giocata
su repentini cambi di tempo e sugli infiammati duelli chitarristici di Haynes
e Trucks, oppure, all'opposto, per il tradizionalismo mai passatista di una semiacustica
e struggente Old Before My Time.
Stupefacente, poi, è la lunga
cavalcata di Instrumental Illness, con una sezione ritmica scatenata che
a cinque minuti dalla fine si produce in un bollente sipario latineggiante che
non può non ricordare i momenti migliori di Santana, perlomeno quelli dei tempi
in cui il grande Carlos aveva ancora tutte le sinapsi ben connesse tra di loro.
D'altro canto, per quanto riguarda le signature-songs, ognuno può scegliersi la
propria all'interno di un repertorio oramai consegnato alla leggenda del rock
eppure tutt'altro che imbalsamato. Non potevano mancare quelle due o tre pagine
- Statesboro Blues (che tutti pensiamo sia degli Allmans quando in realtà
appartiene a Blind Willie McTell), Good Morning Little Schoolgirl (Sonny
Boy Williamson), Trouble No More (Muddy Waters) - magnificamente rilette
dalla storia del blues e proposte in versioni al solito stellari. Difficile non
citare pezzi epocali come il notturno sudista di Dreams o la travolgente
Whippin' Post, ma a simboleggiare l'intera operazione scelgo la ruvidissima
Wasted Words, gravida di chilometrici solos, stacchi e ripartenze della
sezione ritmica, e perciò perfetta nel rendere testimonianza del fenomenale interplay
della band.
Il piacere, sia detto per inciso, non risiede solamente nell'aver
ascoltato un ottimo disco, bensì nel trovarsi, ancora e di nuovo, faccia a faccia
con un gruppo la cui giustificazione sta tutta sulle assi del palcoscenico, un
gruppo le cui celebrazioni live trovano attori imprescindibili nei musicisti che
le officiano come nel pubblico che vi assiste. La cosa importante, insomma, è
sentirsi di nuovo parte di una famiglia. Che dio ce la conservi il più a lungo
possibile. (Gianfranco Callieri)
www.allmanbrothersband.com
www.hittinthenote.com |