:: Willie Nile - "Urban Americana"

Willie Nile
The Arista Columbia recordings 1980-1991



(Acadia/Evangeline 2006)

 

Siccome rispolverare le vecchie certezze è indubbiamente gratificante ma lo è molto di più godersi nuove rivelazioni, posso confessare senza imbarazzo che The Arista Columbia Recordings 1980-1991, raccolta su due cd dei primi tre album del newyorchese Willie Nile, è stato per quanto mi riguarda l'ascolto più godereccio e continuativo di tutta l'estate. Non che ignorassi la bellezza degli album in questione; più semplicemente, riascoltarli mi ha fatto cambiare, e non di poco, la prospettiva critica da sempre mantenuta nei loro confronti, che individuava nell'esordio omonimo del 1980 una piccola pietra miliare, nel seguito del 1981 intitolato Golden Down una discreta copia del predecessore e nel tardo Places I Have Never Been (uscito dieci anni dopo il secondo lavoro) uno zoppicante compromesso commerciale. Invece, alla luce odierna, laddove ridimensionerei il primo, comunque ottimo album e rivaluterei quasi totalmente il terzo, il vero capolavoro mi sembra proprio Golden Down, struggente, sofferto, affilato fratellino minore del Darkness springsteeniano e uno dei vertici tutti dell'epopea ruggente e fradicia di romanticismo del rock metropolitano - ciò che AllMusic, celebrando il recente, superlativo Streets Of New York, ha insomma definito "urban Americana". Intendiamoci, Willie Nile rimane un disco superbo, magari più dylaniano dove il suo successore insegue sfacciatamente lo Springsteen cittadino: grazie alla chitarra e al pianoforte del titolare, alle sei corde abrasive di Clay Barnes e Peter Hoffman, al basso di Tom Ethridge e ai tamburi di Jay Dee Daugherty, quel che ancora oggi colpisce l'ascoltatore è un delizioso ritratto di un umanità perdente e sentimentale che soffre, sorride e s'incontra nei cinque distretti di New York, un quadro pressoché perfetto dove si mescolano le architetture livide di West End, la povertà della Bowery e la tenerezza dei tramonti sul fiume Hudson, tutti cuciti dall'estro di un rocker innamorato di Who, Mc5 e Bob Dylan. L'aggressività pop di That's The Reason, le scudisciate di It's All Over, Old Man Sleeping In The Bowery (che tornerà ancor più cattiva nelle note della fresca Cell Phones Ringing In The Pockets Of The Dead) e She's So Cold, nonché l'apoteosi sentimental-dylaniana di Vagabond Moon, Across The River e They'll Build A Statue Of You, fanno ancora una figura eccellente, e tuttavia contaminata da un pizzico di dispersività rispetto ai 35 minuti a orologeria di Golden Down, 9 canzoni senza una nota sprecata per un'esposizione definitiva dell'epopea urbana in musica, tra scossoni punk, sussulti acustici e rutilanti pennellate rock. Ascoltando l'attacco squillante e granitico di quel macigno che è l'iniziale Poor Boy è possibile cogliere al volo i miglioramenti introdotti dal basso cavernoso dell'ex-Mc5 Fred "Sonic" Smith e dalla produzione ineccepibile di Thom Panunzio e Jimmy Iovine, già dietro i cursori per Springsteen e Patti Smith. Bisognerebbe citarle tutte, le canzoni di questo disco indimenticabile, e anche se per ovvi motivi di spazio non è possibile farlo non posso non spendere qualche parola su una rock-ballad trascinante come I Can't Get You Off Of My Mind (la Racing In The Street di Willie), sul sublime crescendo elettroacustico di I Like The Way, sull'energia devastante di una title-track ebbra di funk stradaiolo, sul punk gaglioffo di una Les Champs Elysees che celebra le affinità tra New York e Parigi con versi immortali come "I had a conversation with Jean-Paul Sartre / But couldn't find a girl, it was breaking my heart" (!) e soprattutto sul candore, l'innocenza e la passione di una Shoulders tutta chiaroscuri d'organo che vale una carriera. Places, ad onta di un'impressionante parata di ospiti, non viaggia sugli stessi livelli, eppure il suo suono, che all'epoca assomigliava troppo a un'inutile rincorsa degli U2 più enfatici, ha retto abbastanza bene l'usura del tempo. Pimpante, luccicoso e ribaldo, Places s'illumina di grandezza nella title-track (più o meno un plagio ben riuscito di Dancing In The Dark), nella corale Heaven Help The Lonely, nell'appiccicosa Café Memphis e soprattutto nella commossa Don't Die, la traccia più angosciosa e pianistica, la più simile al blue-collar sound degli esordi, che sarà di nuovo accantonato nell'esperimento folk dell'ep Hard Times In America ('92) per poi tornare alla grande nel sottovalutato Beautiful Wreck Of The World ('99). Due grosse critiche, su questa ristampa: a) un passaggio digitale fatto così così, con alcuni punti tuttora gracchianti come un vinile; b) l'assenza delle belle bonus-tracks - rispettivamente Edge Of The Earth e It's Your Love - che impreziosivano le prime riedizioni dei dischi dell'80 e dell'81.
Un merito straordinario: l'aver di nuovo puntato i riflettori su Willie Nile, uno di quei rockers che per difenderne la specie dovrebbero attivarsi tutte le organizzazioni ambientaliste e smuoversi i parlamenti.
(Gianfranco Callieri)

www.evangeline.co.uk