Siccome
rispolverare le vecchie certezze è indubbiamente gratificante ma lo è molto di
più godersi nuove rivelazioni, posso confessare senza imbarazzo che The
Arista Columbia Recordings 1980-1991, raccolta su due cd dei primi tre
album del newyorchese Willie Nile, è stato per quanto mi riguarda l'ascolto
più godereccio e continuativo di tutta l'estate. Non che ignorassi la bellezza
degli album in questione; più semplicemente, riascoltarli mi ha fatto cambiare,
e non di poco, la prospettiva critica da sempre mantenuta nei loro confronti,
che individuava nell'esordio omonimo del 1980 una piccola pietra miliare, nel
seguito del 1981 intitolato Golden Down una discreta copia del predecessore
e nel tardo Places I Have Never Been (uscito dieci anni dopo il
secondo lavoro) uno zoppicante compromesso commerciale. Invece, alla luce odierna,
laddove ridimensionerei il primo, comunque ottimo album e rivaluterei quasi totalmente
il terzo, il vero capolavoro mi sembra proprio Golden Down, struggente, sofferto,
affilato fratellino minore del Darkness springsteeniano e uno dei vertici tutti
dell'epopea ruggente e fradicia di romanticismo del rock metropolitano - ciò che
AllMusic, celebrando il recente, superlativo Streets
Of New York, ha insomma definito "urban Americana". Intendiamoci,
Willie Nile rimane un disco superbo, magari più dylaniano dove il
suo successore insegue sfacciatamente lo Springsteen cittadino: grazie alla chitarra
e al pianoforte del titolare, alle sei corde abrasive di Clay Barnes e
Peter Hoffman, al basso di Tom Ethridge e ai tamburi di Jay Dee Daugherty,
quel che ancora oggi colpisce l'ascoltatore è un delizioso ritratto di un umanità
perdente e sentimentale che soffre, sorride e s'incontra nei cinque distretti
di New York, un quadro pressoché perfetto dove si mescolano le architetture livide
di West End, la povertà della Bowery e la tenerezza dei tramonti sul fiume Hudson,
tutti cuciti dall'estro di un rocker innamorato di Who, Mc5 e Bob Dylan. L'aggressività
pop di That's The Reason, le scudisciate di It's All Over, Old
Man Sleeping In The Bowery (che tornerà ancor più cattiva nelle note della
fresca Cell Phones Ringing In The Pockets Of The Dead) e She's So Cold,
nonché l'apoteosi sentimental-dylaniana di Vagabond Moon, Across The
River e They'll Build A Statue Of You, fanno ancora una figura eccellente,
e tuttavia contaminata da un pizzico di dispersività rispetto ai 35 minuti a orologeria
di Golden Down, 9 canzoni senza una nota sprecata per un'esposizione definitiva
dell'epopea urbana in musica, tra scossoni punk, sussulti acustici e rutilanti
pennellate rock. Ascoltando l'attacco squillante e granitico di quel macigno che
è l'iniziale Poor Boy è possibile cogliere al volo i miglioramenti introdotti
dal basso cavernoso dell'ex-Mc5 Fred "Sonic" Smith e dalla produzione ineccepibile
di Thom Panunzio e Jimmy Iovine, già dietro i cursori per Springsteen
e Patti Smith. Bisognerebbe citarle tutte, le canzoni di questo disco indimenticabile,
e anche se per ovvi motivi di spazio non è possibile farlo non posso non spendere
qualche parola su una rock-ballad trascinante come I Can't Get You Off Of My
Mind (la Racing In The Street di Willie), sul sublime crescendo elettroacustico
di I Like The Way, sull'energia devastante di una title-track ebbra di
funk stradaiolo, sul punk gaglioffo di una Les Champs Elysees che celebra
le affinità tra New York e Parigi con versi immortali come "I had a conversation
with Jean-Paul Sartre / But couldn't find a girl, it was breaking my heart"
(!) e soprattutto sul candore, l'innocenza e la passione di una Shoulders
tutta chiaroscuri d'organo che vale una carriera. Places, ad onta di un'impressionante
parata di ospiti, non viaggia sugli stessi livelli, eppure il suo suono, che all'epoca
assomigliava troppo a un'inutile rincorsa degli U2 più enfatici, ha retto abbastanza
bene l'usura del tempo. Pimpante, luccicoso e ribaldo, Places s'illumina di grandezza
nella title-track (più o meno un plagio ben riuscito di Dancing In The Dark),
nella corale Heaven Help The Lonely, nell'appiccicosa Café Memphis
e soprattutto nella commossa Don't Die, la traccia più angosciosa e pianistica,
la più simile al blue-collar sound degli esordi, che sarà di nuovo accantonato
nell'esperimento folk dell'ep Hard Times In America ('92) per poi tornare
alla grande nel sottovalutato Beautiful Wreck Of The World ('99). Due grosse
critiche, su questa ristampa: a) un passaggio digitale fatto così così, con alcuni
punti tuttora gracchianti come un vinile; b) l'assenza delle belle bonus-tracks
- rispettivamente Edge Of The Earth e It's Your Love - che impreziosivano le prime
riedizioni dei dischi dell'80 e dell'81. Un merito straordinario: l'aver
di nuovo puntato i riflettori su Willie Nile, uno di quei rockers che per difenderne
la specie dovrebbero attivarsi tutte le organizzazioni ambientaliste e smuoversi
i parlamenti. (Gianfranco Callieri)
www.evangeline.co.uk
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