Willie
Nile Live
From The Streets Of New York
[River House/00:02:59/Blue Rose 2008 CD+DVD]

Stupefatti dal voto? Ma il voto, per quel che conta, poteva anche essere
15, oppure 4, dipende da come guardate alle cose della vita e a quel rock'n'roll
romantico, metropolitano, stradaiolo e fradicio di elettricità che trova i suoi
cantori più incisivi in Bruce Springsteen, Patti Smith, Elliott Murphy, David
Johansen, Lou Reed, Mink DeVille non ancora Willy. Non c'è bisogno di fare i passatisti,
i piagnoni o i luddisti per vedere, o ascoltare, nel Willie Nile di Live
From The Streets Of New York un gesto di resistenza culturale, la dichiarazione
fiera, orgogliosa e struggente di un modo di fare musica, di intenderla, di viverla
che dai Creedence alle più scalcinate bettole del pianeta non morirà mai. E non
morirà mai - attenzione! - non perché superiore ad altre contingue espressioni
artistiche per qualche sottinteso diritto divino, bensì perché, come ancora oggi
nelle scuole si insegnano a buon diritto le gesta letterarie del Manzoni o dell'Ariosto,
non morirà mai il bisogno fisico e radicale di urlare nel microfono "una canzone
per tutti quelli che non sanno come pregare" (The Day
I Saw Bo Diddley In Washington Square), di sciogliere una pennata sulle
corde della chitarra soltanto per prorogare l'effetto estatico della trascendenza
elettrica dei suoni, di prolungare la rullata di una batteria allo scopo di creare
un tumulto che dalle braccia del misicista finisca direttamente nelle viscere
degli spettatori, di sedersi al pianoforte per intonare la più gonfia e malinconica
delle serenate per tutte le città dove c'è una Giulietta che si aggira per i tetti
e un qualche Romeo brancolante tra le stazioni della metropolitana (Streets
Of New York). In questo senso, Live From The Streets Of New
York potrebbe benissimo risultare un doppio album, col suo cd e il suo speculare
dvd, perfettamente inutile per chi abbia già decretato questa musica morta negli
anni '70, a dir poco insostituibile per chi, al contrario, provi un brivido lungo
la schiena assaporando l'opportunità di godersi in scena il miglior chitarrista
mai reclutato da John Mellencamp (Andy York), il suono versatile e iper-dinamico
del bassista di Teddy Thompson e Marta Wainwright (Brad Albetta), le percussioni
rootsy di un collaboratore di Rosanne Cash (Rich Pagano), le chitarre e
le tastiere di una piccola star delle notti televisive americane (Jimmy Vivino).
Ma il mattatore della serata è ovviamente lui, nonostante il calibro degli invitati:
il minuscolo eppure gigantesco Willie Nile, reduce da un disco monumentale quale
Streets
Of New York (2006) e com'è ovvio deciso a celebrarlo nel migliore dei
modi possibili (il migliore per noi vecchie carcasse rock, chiaro), ovvero con
un live sudato, febbricitante e stracolmo d'energia, affrontato come se l'aspra
poetica di Bob Dylan e la serrata artiglieria glam di Mott The Hoople o Mick Ronson
fossero esattamente la stessa cosa. Non c'è molto da aggiungere, ai suoni e alle
immagini di Live From The Streets Of New York, se non che se avete già consumato
a furia di lacrime e balli Live It Up, Live In The Promised Land, Live Bullet,
Full House o The Parkerilla, qui potrete trovare la stessa, terrificante concentrazione
di trasporto r&b, schitarrate fiammeggianti e fede nella causa di un r'n'r dove
Muddy Waters e i Ramones hanno il medesimo diritto di cittadinanza. Come posso
io, che con queste canzoni sono cresciuto, sottolineare in maniera significativa
le qualità di una On Some Rainy Day da piangerci
sopra (da qualche parte tra i vicoli newyorkesi e il paradiso), la rabbia fulminante
di un'interminabile Hard Times In America
che potrebbe abbattere i muri, le osservazioni taglienti e il bruciante sferragliare
r'n'r di una Cell Phones Ringing (In The Pockets Of The
Dead) che, sebbene ispirata alle esplosioni terroristiche di Atocha,
El Pozo De Tio, Via Téllez e Santa Eugenia (quattro treni regionali di Madrid
caricati di bombe l'11 marzo del 2004, all'indomani delle elezioni spagnole),
potrebbe valere per qualsiasi cittadinanza colpita da paura, diffidenza e sospetto,
l'ardore torrenziale di una Heaven Help The Lonely
tra Springsteen e Bono, i centomila graffi urbani di una You
Gotta Be A Buddha (In A Place Like This) che chiama a raccolta tutti
i "magnifici rottami del mondo" per non rinunciare al proprio decoro e alla propria
dignità, fossero anche appesi a null'altro che a un riff cui basta citare, incattivire
e amplificare il Fogerty di Rockin' All Over The World? Quando poi arriva,
ancora una volta, il battito bradicardico di una Police
On My Back implicitamente dedicata ai suoi migliori divulgatori, cioé
Joe Strummer e i Clash, allora si può essere certi di aver assistito a una sorta
di quadratura del cerchio dove affetto e ricordi contano tanto quanto gli imprescindibili
slanci verso il futuro. Qui non c'è bisogno di affermare che il rock'n'roll sta
da una parte, eventualmente questa, e deprecare il resto del mondo che non capisce
e guarda altrove. Qui c'è solo la faccia tosta di chi brucia d'amore per il rock'n'roll
e non si fa problemi a mettere in piazza, a perseguire con testardaggine e risultati
commerciali purtroppo inevitabilmente scarsi, le proprie convinzioni e il proprio
insostituibile bagaglio formativo. Qui c'è un sentimento democratico pronto ad
accogliere chiunque voglia trovare il suo spazio nelle melodie e nelle storie
delle varie Asking Annie Out,
Vagabond Moon, Welcome To My Head
o Back Home, giacché i brani di Willie
Nile, un po' come l'amata New York che da trent'anni lo ospita, si rivolgono
a tutti, "ai principi, ai pagliacci e ai vagabondi". E se anche non siete convinti
del fatto che in ciascuno di noi convivano un principe, un pagliaccio e un vagabondo,
dovreste convenire che tutti, prima o poi, abbiamo regalato il nostro cuore a
una canzone. Per quelle di Willie Nile ho perso la testa tanto tempo fa, e ancora
oggi trovo siano tra le amanti più dolci, esuberanti e coinvolgenti che un uomo
innamorato possa desiderare. (Gianfranco Callieri)
www.willienile.com
www.2minutes59.com
www.bluerose-records.com
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