Chris Whitley
White boy blues
Chris Whitley
Weed
War Crime Blues

(Fargo 2004)
 

Sinceramente, mi chiedo chi possa continuare a finanziare la carriera discografica di Chris Whitley. Sono anche contento che lui continui a realizzare degli album (gli debbo se non altro tanta gratitudine per lo stupendo esordio di Living With The Law [1991]), ma questa sua manifesta attitudine a incidere qualsiasi cosa gli passi per la testa, senza effettuare alcun filtro che risponda a qualche minimo criterio di opportunità, finirà alla lunga per nuocergli. Non che le vendite registrate dai suoi album abbiano poi segnato nel frattempo significativi passi avanti, anzi. Hotel Vast Horizon, risalente giusto allo scorso anno, s'è rivelato col tempo uno dei suoi dischi migliori, ma com'è tradizione di Chris, i nuovi lavori non esitano a buttare nel cesso quanto realizzato sinora per ricominciare nuovamente daccapo, nella testarda ricerca di un "grado zero" dell'espressione artistica che non si sa più se considerare autolesionistica o semplicemente folle.

Weed
e War Crime Blues, nella reciproca scheletricità, sono due opere abbastanza simili per concetto se non per minutaggio (l'uno supera i 60', l'altro circumnaviga di poco la mezz'ora): entrambi acustici, entrambi vissuti con evidente trasporto, entrambi vomitati al mondo attraverso un dobro percosso con primaria funzione ritmica, solo che il primo è un'antologia, mentre il secondo raccoglie 11 brani nuovi di zecca. Weed, sin dallo scatto di copertina, sembra suggerire che per lo stesso artista l'intimo spirito delle sue vecchie canzoni, quelle cioè del periodo Columbia (efficacemente bignamizzate nella raccolta Long Way Around - An Anthology 1991/2000 ['02]), è da ricercarsi in queste nuove versioni, nervose, ossute e aguzze come da copione dell'ultimo corso. Senza nulla togliere ad alcune riletture di grande efficacia, quali ad esempio la lullaby desertica di Narcotic Prayer o l'asciuttezza à la Giant Sand del primo periodo nella rinnovata Cool Wooden Crosses, nulla potrà però togliermi dalla testa l'opinione che l'abito più calzante delle varie Make The Dirt Stick, Bordertown, Phone Call From Leavenworth, Big Sky Country, Dust Radio e Kick The Stones fosse quello classicamente rock-blues del debutto.


Sulla medesima falsariga si muove pure War Crime Blues, cupo e introverso omaggio alla primordiale sottrazione di maestri del suono resofonico dello spessore di Bukka Allen o Son House. Alcune canzoni, se prese singolarmente, risultano notevoli: mi riferisco perlomeno a Ghost Dance, Her Furious Angels, Invisible Day e Dead Cowboy Song. Incuriosiscono altresì le cover, da una furibonda I Can't Stand It (Velvet Underground) a una quanto mai essenziale The Call Up (i Clash di Sandinista!), fino al sorprendente numero a cappella di Nature Boy, vetusto motivo yiddish portato al successo mezzo secolo fa da Nat King Cole. E tuttavia, nel complesso, trattasi di album sin troppo crudo, privo di qualsiasi gioia, ripiegato su se stesso come un'ostrica particolarmente ostinata. Esorcizzare i propri demoni in musica è operazione più che legittima (diamine!, non è forse ciò che fanno tutti gli artisti seri?), ma d'ora in poi, a Chris Whitley, consiglierei di farlo un po' meno spesso e con un pizzico di disciplina in più
(Gianfranco Callieri)

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