Sinceramente,
mi chiedo chi possa continuare a finanziare la carriera discografica di Chris
Whitley. Sono anche contento che lui continui a realizzare degli album (gli
debbo se non altro tanta gratitudine per lo stupendo esordio di Living With The
Law [1991]), ma questa sua manifesta attitudine a incidere qualsiasi cosa gli
passi per la testa, senza effettuare alcun filtro che risponda a qualche minimo
criterio di opportunità, finirà alla lunga per nuocergli. Non che le vendite registrate
dai suoi album abbiano poi segnato nel frattempo significativi passi avanti, anzi.
Hotel
Vast Horizon, risalente giusto allo scorso anno, s'è rivelato col tempo
uno dei suoi dischi migliori, ma com'è tradizione di Chris, i nuovi lavori non
esitano a buttare nel cesso quanto realizzato sinora per ricominciare nuovamente
daccapo, nella testarda ricerca di un "grado zero" dell'espressione artistica
che non si sa più se considerare autolesionistica o semplicemente folle.
Weed e War Crime Blues, nella reciproca scheletricità,
sono due opere abbastanza simili per concetto se non per minutaggio (l'uno supera
i 60', l'altro circumnaviga di poco la mezz'ora): entrambi acustici, entrambi
vissuti con evidente trasporto, entrambi vomitati al mondo attraverso un dobro
percosso con primaria funzione ritmica, solo che il primo è un'antologia, mentre
il secondo raccoglie 11 brani nuovi di zecca. Weed, sin dallo scatto
di copertina, sembra suggerire che per lo stesso artista l'intimo spirito delle
sue vecchie canzoni, quelle cioè del periodo Columbia (efficacemente bignamizzate
nella raccolta Long Way Around - An Anthology 1991/2000 ['02]), è da ricercarsi
in queste nuove versioni, nervose, ossute e aguzze come da copione dell'ultimo
corso. Senza nulla togliere ad alcune riletture di grande efficacia, quali ad
esempio la lullaby desertica di Narcotic Prayer o l'asciuttezza à la Giant
Sand del primo periodo nella rinnovata Cool Wooden Crosses, nulla potrà
però togliermi dalla testa l'opinione che l'abito più calzante delle varie Make
The Dirt Stick, Bordertown, Phone Call From Leavenworth, Big
Sky Country, Dust Radio e Kick The Stones fosse quello classicamente
rock-blues del debutto.
Sulla medesima falsariga si muove pure War
Crime Blues, cupo e introverso omaggio alla primordiale sottrazione di
maestri del suono resofonico dello spessore di Bukka Allen o Son House. Alcune
canzoni, se prese singolarmente, risultano notevoli: mi riferisco perlomeno a
Ghost Dance, Her Furious Angels, Invisible Day e Dead
Cowboy Song. Incuriosiscono altresì le cover, da una furibonda I Can't
Stand It (Velvet Underground) a una quanto mai essenziale The Call Up
(i Clash di Sandinista!), fino al sorprendente numero a cappella di Nature
Boy, vetusto motivo yiddish portato al successo mezzo secolo fa da Nat King
Cole. E tuttavia, nel complesso, trattasi di album sin troppo crudo, privo di
qualsiasi gioia, ripiegato su se stesso come un'ostrica particolarmente ostinata.
Esorcizzare i propri demoni in musica è operazione più che legittima (diamine!,
non è forse ciò che fanno tutti gli artisti seri?), ma d'ora in poi, a Chris Whitley,
consiglierei di farlo un po' meno spesso e con un pizzico di disciplina in più
(Gianfranco Callieri)
www.chriswhitley.com
www.fargorecords.com
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